tautogramma
(la
stessa parola)
Artificio per cui tutte le parole
di una determinata combinazione linguistica iniziano con la medesima lettera
dell’alfabeto. Esempio: “carmina clarisonae calvis cantate, Camenae / comperies
calvo columen conferre cerebro / comperies calvos capitis curare catarrhos”
(Ucbaldo di Saint-Amand, “Egloga De Calvis” IX secolo). “Triste, transi, tout
terny, tout tremblant” (C. Marot). “o Tite, tute, Tate tibi tanta, tyranne,
tulisti” (Ennio). “veni, vidi, vici” (Cesare).
Figura
161
teatro
della parola
Nel 1897 Mallarmé pubblica sulla
rivista “Cosmopolis” il poema “Un coup de dés” in una forma del tutto inedita,
dove il verso viene scisso e disperso nello spazio della pagina, proprio quel
verso, “l’antique vers auquel je garde un culte et attribue l’empire de la
passion et des rêveries”. E questo è un altro indizio della crisi del sistema
metrico. Non solo, ma ogni verso è evidenziato da tipo e corpo grafici propri.
Così l’autore spiega tale dispersione: “Sì, è una novità, un modo di dare
spazio, respiro alla lettura… gli spazi bianchi non sono più margini, ma valori
di silenzio intorno alla frase, e quindi le frasi sono immerse e ritmate dal
biancore dei silenzi… io non trasgredisco la misura, il tempo del verso,
soltanto li disperdo fra i bianchi silenzi della carta…” Così tra bianchi
silenzi e immagini si stabilisce una suddivisione ‘prismatica’ dell’idea” che
si fa regia del testo. Di conseguenza il poema si fa evento teatrale ove la
scena è la pagina stampata e la sequenza delle pagine si fa teatro della
parola, spartito verbale coniugato dalla diversità dei corpi e dalla densità
dei caratteri di stampa, una notazione musicale sui generis di toni e timbri.
Da un altro punto di vista la successione delle pagine è da vedersi quale montaggio
di fotogrammi d’un evento poetico.
Figure
da 162 a 170
technopaegnion
Così titolò
Decimo Magno Ausonio (310-395 d.C.) i suoi esperimenti poetici, detti anche
anadiplosi (duplicazione), ovvero ripetizione dello stesso vocabolo ad inizio e
fine del verso: res hominum fragiles alit, et perimet fors / fors
dubia aeternumque labans quam blanda fovete spes / spes nullo
finita aevo, cui terminus est mors / mors avida, inferna mergit
caligine quam nox / nox obitura vicem, reneaverit aurea cum lux…
Figura
171
telestico
vedi:
acrostico
text-flache
(testo-superficie)
Sin dal 1958 il tedesco Franz Mon
concentra il suo interesse su quella ch’egli chiama “poesia della superficie”,
la superficie della pagina stampata, ove egli legge la forma negativa creata da
quella positiva delle lettere, una forma che ritiene elemento autentico del
testo. Il testo stampato, di norma, è visto come mera funzione del parlato ed è
a questo subordinato. Tuttavia noi scordiamo che lo scritto era un tempo di
natura figurativa-pittorica e che tale natura possiede valenze semantiche al di
là del parlato. Esiste dunque la possibilità di articolare il linguaggio
scritto in modo spaziale anziché temporale per arricchire la comunicazione, ad
esempio l’aspetto di certe formule chimiche che utilizzano la superficie in una
dimensione sintattica o l’uso di scrivere in pittura come faceva Paul Klee o
Wols e anche i versus contexti di Porfirio al tempo di Costantino e poi per
tutto l’alto medioevo. D’altra parte, prosegue Mon, la differenza tra poema
recitato e pagina scritta rappresenta una progressione dal medium più
flessibile a quello più lento e tale ritardo può influenzare la scelta
lessicale e la sintassi del testo. Potremmo ricordare la particolare forma di
scrittura delle epigrafi, fatta di abbreviazioni, sigle, simboli.
Le relazioni
tra poema e sua veste sono complesse perché il poema nasce dall’amorfo che è il
suo retroscena. La superficie è la sua negazione, la pagina bianca, l’horror
vacui contro cui lotta per scaturire. Il poema non esiste senza il vuoto che lo
circonda, come ben sapeva Mallarmé. Un poema che si abbandoni alla scrittura,
che si ritragga dalla ditirambica corrente del parlato, chiede silenzio e vuol
essere compreso come totalità, è semanticamente mistico e al contempo teoretico.
La “poetry of surface” di Franz Mon può essere interpretata come la ierografia
di uno spirito che mira a catturare nel contenuto del poema quel
“qualcos’altro” che esiste ma che è tanto vago da non potersi palesare nel
‘solo così’. Dovunque percepiamo la presenza di entrambi gli impulsi,
l’evidenza normale del discorso e quel qualcos’altro che traluce nell’intreccio
dei segni. Le lettere alfabetiche si mostrano qual sono quando il ‘solo così’
si scorda per qualcos’altro che vi sottende. Nessuno più ricorda che un tempo
la lettera ‘m’ significava acqua. Nella poesia di superficie il testo è dentro
gli spazi, tra le aree negative che frammentano le forme alfabetiche. Mon
ammette che per qualcuno la scissione del segno-parola onde giungere a testi asemantici
può sembrare futile acrobazia, ma aggiunge che ciò che pare inutile può
risultare interessante: il manifesto pubblicitario può essere appallottolato o
lacerato e incomincia a cantare. Si pensi agli “affichistes” francesi Hains,
Villeglé, Dufrêne e Mimmo Rotella che nel 1957 avevano esposto alla galerie
Colette Allendy di Parigi. Il giornale sforbiciato, continua Mon, si trasforma
in qualcosa che prima non conoscevo, il senso comune e la sintassi evaporano,
nasce la voglia di cercare fra i pezzi di lettere una loro inedita
ricomposizione, una ‘struttura altra’: una piega si fa punteggiatura, il taglio
unisce segni prima sconnessi, che ora posseggono valori spazialmente
sintattici, impronunciabili epperò leggibili.
Figura
172
tipografismi
Sotto il titolo di tipografismi
raggruppiamo una serie di esperienze di carattere più tipografico che poetico.
Alcune di queste hanno valore di cinetismo virtuale, come “bdpq” di Diter Rot,
o, ancor più evidente, la ‘e' di Tim Ulrichs (v. cinetismo virtuale) o nei labirinti
cubici egizi poi ripresi splendidamente nell’epoca barocca. Altri risultati
come “barbara” di Klaus Peter Dienst o i tipogrammi di Hansjörg Mayer, sono
eleganti esercitazioni tipografiche.
tmèsi
(taglio)
Figura metrica
che consta nella divisione d’una parola in due parti, una delle quali si pone
alla fine di un verso e la seconda al principio o talora anche nel mezzo del
verso successivo. Es.: “ne men ti raccomando la mia Fiordi / ma dir non
potè ligi, e qui finìo” (Ariosto).
troncamento
vedi:
apocope
trovata,
poesia
Leonardo vedeva materia figurativa
nel dinamico apparire delle forme delle nuvole o nell’informale staticità delle
fioriture dell’umidità sui muri: una pittura trovata. Franco Vaccari cattura
fotograficamente i segni che anonimi artisti tracciano sugli intonaci delle
case, nei cessi pubblici ecc. ed è poesia trovata.
Figure
173 e 174
typoem
vedi:
dattilogramma
verbotettura
Neologismo coniato da Arrigo Lora
Totino che significa architettura di parole nello spazio della pagina e che si
identifica con la poesia visuale-concreta (v.) con in più l’esigenza di
ottenere una precisa corrispondenza tra i valori semeiotico-grafici e il senso
del poema, variando il quale, dovranno variare pure quelli. Ad esempio la
scelta dei caratteri tipografici in “chiaroscuro” sarà diversa da quella di
“equilibrio” o di “ombra-luce” o di “notturno” o di “wings”. L’architettura
verbale può svilupparsi anche nello spazio tridimensionale e saranno i “corpi
di poesia” (v.), o avvalersi dei cromatismi come nei “Cromofonemi Iridescenti”
(1977) e in “Incandescenze, cinque itinerari litoranei” (1978), due portfolio
di tavole serigrafate.
Nelle
verbotetture sono presenti le seguenti tematiche:
- trascrizione
in forme verbo-visuali di procedimenti stilistici propri del comporre musica;
- rapporti
fra vocaboli aventi la stessa radice ma significati differenti;
- frequente
uso della permutazione e saturazione delle possibilità semantiche;
- forme
di perturbazione ottica in analogia con stilemi dell’optical art;
- tendenze
alla pura astrazione in simbolici logotipi o neo-mandala;
- trascrizione
ottico-verbale di fonie;
- gags
verbali;
- il
racconto come collage del quotidiano (v. horror vacui).
Figure
da 175 a 182
vers
brisés
Versi le cui singole parole o
gruppi di parole possono essere lette anche verticalmente. Talvolta anche le
colonne interne sono contrassegnate dalla rima.
versus
intexti
(versi
intessuti)
Il principio dei versus intexti è
mutuato dall’acrostico, un senso secondo che percorre in direzione non
orizzontale una superficie scritta. Questa presenza linguistica dev’essere
evidenziata da un tratteggio che rilevi il tracciato del senso secondo. Così ad
un effetto linguistico di senso sovrapposto si unisce un effetto grafico di
rilievo pure sovrapposto. La scritta sottostante svolge la stessa funzione che
in un dipinto svolge lo sfondo.
Perché l’artificio risulti
perfetto, occorre che il messaggio linguistico sovrasegmentabile sia
isometrico, cioè composto da un ugual numero di lettere (lettere, non sillabe),
il che rende possibile la contiguità perfetta di quella chiamata a costituire
il senso secondo, una contiguità necessaria a produrre la continuità della
linea grafica chiamata a costituire il disegno.
L’inventore di questo difficile
artificio fu Publio Optaziano Porfirio, alto funzionario dell’età
costantiniana. Fecondi sviluppi si ebbero nell’alto medioevo da parte della
poesia mediolatina di ispirazione mistica: Rabano Mauro, Venanzio Fortunato,
Iosephus Scottus, Alcuino ecc.. Infatti per il poeta medievale, mistico per
definizione, apparirà ideale la soluzione di sostituire la descrizione
dell’evento divino con l’ineffabilità del Verbo geometrizzato, un gesto
decisivo nel senso soteriologico: l’ineffabile divino si fa effabile nella
visualizzazione del Verbo.
Figure
183-185
visiva,
poesia
Proposta dal gruppo 70,
fiorentino, che al contempo aveva espresso la “poesia tecnologica”. Nei testi
visivi di Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti si verifica un doppio spostamento
del codice verbale verso quello visivo e viceversa, creando una spazialità che
è un intercodice risultante dalla loro contaminazione. Così la parola si fa
elemento spaziale e l’immagine racconto, tramite soprattutto l’uso del collage.
Il collage inaugurato dai pittori cubisti come elemento di ‘colore locale’,
aveva trovato il suo più compiuto sviluppo sia figurativo che verbale nella
pratica dadaista che concretizzava uno stile di confronto simultaneo di più
situazioni verbali o figurative, accostate tramite criteri inconsci, intuitivi
o di critica sociale, ove il lettore è coinvolto proprio nel processo del suo
pensare.
Confrontando la poesia visiva con
il collage dadaista si vede che i due procedimenti presentano sostanziali
differenze. Nel caso dadaista il carattere precipuo del testo è di gelido disincanto
nei confronti della cultura e della società, non solo quella borghese,
affrontata con una sorta di ironia metafisica, ai margini del nulla, quali
lacerti esposti sul tavolo operatorio: è il caso delle poesie di Tzara e dei
collages di Raoul Hausmann, Anna Hoch, Max Ernst.
Nella poesia visiva, invece, l’uso
dei mezzi di comunicazione standard (stampa, rotocalchi, televisione) ha una
funzione opposta a quella di imbonimento pubblicitario, è una specie di
contro-réclame con forme di guerriglia segnaletica. Miccini porta in questa
operazione una marcata sensibilità per le interrelazioni dei segni e nello
stesso tempo un discorso sul mondo, come ad esempio la rilettura acuta della
filosofia presocratica per immagini e parole. Lamberto Pignotti in una società
gremita di immagini e satura di parole, reagisce facendo un po’ di vuoto e di
silenzio affinché all’horror pleni subentri l’horror vacui. Così, tra l’altro,
ha iniziato a cancellare particolari di immagini di rotocalco, e sono le
“poesie invisibili” che ricordano le parti andate perdute di antichi affreschi
o raschiature di remoti palinsesti.
Figure
186-188
visuale,
poesia
Termine usato da Carlo Belloli per
designare la propria poesia figurata. Con la nascita della poesia concreta, i
due termini hanno finito per coincidere. L’unica differenza consiste in un più
accentuato interesse, da parte di Belloli e Lora Totino, verso una scelta dei
tipi e dei corpi tipografici in ponderata corrispondenza con il senso del
poema.
La poesia visuale di Belloli fu
inaugurata dai “testi-poemi murali” (1944) e poi dalle “Tavole visuali” (1948).
Figura
189
zaum
Il vocabolo russo ‘zaum’ è
contrazione di ‘zaumniki jazik’, linguaggio transmentale, creato dai tre poeti
Velemir Chlebnikov, Aleksej Krucenych e Iliazd (Ilja Zdanevic). I primi testi
di Chlebnikov risalgono al 1909 e il suo zaum è ben diverso da quello degli
altri due che composero una serie ininterrotta di ‘smottologie’ ovvero
franamenti lessicali in dissoluzione, in un puro balbettio sonoro di tipo
pre-dadaista. Invece lo zaum di Chlebnikov è composto dalla riorganizzazione di
frammenti di vocaboli già esistenti nella lingua russa. Il rapporto che si
viene a stabilire tra queste particelle linguistiche è analogo a quello tra
prefisso, suffisso e radice, o di radice con radice, con la creazione di un
linguaggio composto da neologismi. Pure il futurista Bruno Corra compose alcune
poesie in un linguaggio fatto di neo-parole. Per tale via di condensazione
s’inoltrerà James Joyce nella composizione di quel magma proteiforme che è il
“Finnegans Wake”.
Figure
da 190-193
zeroglifici
Pubblicati da Adriano Spatola nel
1966. Da un lato sono una riproposta dei “testi-superficie” di Franz Mon,
dall’altro si tratta della riduzione al grado zero del significato verbale d’un
testo scritto, tramite la sua minuta frammentazione e ciò corrisponde
visualmente alla ricerca sonora sui fonemi, cioè sulle minime unità
infrasignificanti del parlato, che fu inaugurata nel 1964 da Arrigo Lora Totino
presso lo Studio di Musica Elettronica di Torino. Non a caso in un manoscritto
poi pubblicato su “Il Verri” (Milano) nel numero di dicembre 1991, “Omaggio a
Spatola”, l’autore scrive che “nella maggior parte dei casi i miei testi
visuali sono anche partiture, a volte in maniera diretta, a volte in modo
allusivo. Perlopiù l’allusione è all’idea seriale d’una successione preordinata
di suoni o meglio al fantasma di questa idea. Se si stabilisce un certo numero
di varianti per l’occhio, lo spettro o specchio della serialità diventa una
conseguenza inevitabile.
Figure
194
zeugma
(congiunzione)
Figura grammaticale che consiste
nell’accordare tra loro elementi che richiederebbero ciascuno un costrutto
proprio. Es.: “parlare e lacrimar vedraimi insieme” (Dante) (invece di: mi
udrai parlare e mi vedrai lacrimare).