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LA POESIA DELL’ORALITA’

 

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“L’uso artistico della lingua, e specialmente l’uso poetico, mette a contributo proprietà sonore trascurate dall’uso normale. Alcune di queste, come la misura, il ritmo, sono state sfruttuate in modo sistematico e canonizzate in regole strette, dando luogo a metri, versi, strofe, rime, assonanze, ecc… Altre come i timbri, la qualità dei suoni sono state assoggettate con minor rigore a regole o consuetudini, dando luogo a formazioni più generiche, come l’allitterazione, la paronomasia ed una quantità di combinazioni che non sono state codificate. Su altre ancora, come il tono, l’altezza, la durata dei singoli suoni si è riflesso ben poco e solo in epoca recente dalle poetiche sperimentali. Nel suo insieme il territorio dell’oralità … non è stato ancora osservato così attentamente da cavarne quei dati dell’esperienza comune che si traducono poi in schemi. Anche nella fase esecutiva, lo è stato finora per parte di pratiche ben lontane da quella poetica: tali ad esempio i modi ripetitivi della preghiera vocale, l’orazione per respiro suggerita da S. Ignazio di Loyola, la lettura recto-tono in auge nei refettori dei monaci. Se rivolta alla fase compositiva, la domanda può essere posta in questi termini: nel testo poetico, può darsi una strumentazione fonica diversa dalla strutturazione del senso verbale? Oppure anche: si può distinguere fra i rapporti che i suoni trattengono fra di loro e quelli che le combinazioni foniche trattengono con i significati che veicolano?”.

Queste riflessioni di Giovanni Pozzi (“Poesia per gioco”, Il Mulino, 1984) possono ben servire a considerare l’elemento specifico che è alla base della poesia sonora, l’oralità. A monte sta la fitta gamma di possibilità offerte dalle ‘figure del significante’, dall’onomatopea agli incroci sillabici nelle polifonie, al simbolismo fonico delle cosiddette lingue immaginarie (nenie magiche, mistiche, utopiche), dalla creazione di parole sesquipedali all’uso intensivo di vocaboli che, per la loro veste fonica rara e curiosa, producono, riuniti in massa, un effetto eccezionale come nell’Adone del Marino o nei Leporeambi del Leporeo. Ciò prova la possibilità di una strumentazione sonora della lingua del tutto indipendente dall’organizzazione dei significati. Ma tale vasto territorio, cui si devono aggiungere le figure dell’allitterazione, della paronomasia, della consonanza e della rima, è a disposizione di qualsivoglia poeta e non caratterizza il poeta sonoro tanto quanto l’oralità.

Già il Saussure ricordava che “l’esercizio del linguaggio è prima di tutto un flusso sonoro, un fatto che riguarda il circuito orale-aurale, bocca-orecchio, e l’aver rinunciato all’oralità per la scrittura, ha implicato una forte deprivazione sensoriale, togliendo all’uomo gran parte del piacere connesso all’atto vocale” (Renato Barilli, introduzione a “Futura, poesia sonora”, Milano, 1978).

Il poeta sonoro vuol dunque riscattare la parola parlata, ma ecco che abbandonandosi al flusso sonoro del parlato, egli raggiunge una zona intermediale ove s’intersecano, sconfinando dai propri codici, più arti, dalla poesia alla musica, alla mimica, alla danza, alla pittura, ecc… Così il poeta non è più solo con la propria parola, ma deve al contempo gestire tono, timbro, ritmo della voce, il proprio spazio scenico, la luce che l’illumina nonché il rapporto complesso che egli instaura col pubblico: egli è “una voce in movimento” (G. Fontana “La voce in movimento, vocalità, scrittura e struttura intermediali nella sperimentazione poetico-sonora”, Harta Performing-Momo, Monza 2003).

Marinetti (1876-1944), nel manifesto della “Declamazione dinamica e sinottica” prescrive al poeta futurista una gestualità meccanica del tutto opposta alla declamazione ‘passatista’ che “si riduce sempre ad una inevitabile monotonia di alti e bassi, ad un andirivieni di gesti che inondano di noia la rocciosa imbecillità dei pubblici di conferenze” e sono ben note le serate futuriste. Ma prima ancora Mallarmè aveva messo in scena, nella serie di sequenze del “Coup de dés”, un dramma visuale di parole e silenzi (i bianchi del foglio), estremo dono del simbolismo al futuro della poesia, un dono che è già gesto e scenografia ed evento filmico nella successione delle pagine (Fig. vedi Glossario).

In una situazione poi non troppo dissimile il poeta sonoro si situa al crocevia della multimedialità, in quella zona di frizione ove le arti sconfinano le une nelle altre, ciò che, nel momento in cui stendiamo queste note, gli impone una prima scelta: o aderire a un sistema di pratiche artistiche proposta da una politica del corpo, investigando le correlazioni tra gestualità con la voce, gli schemi ritmici orali, la respirazione ove il suono è il principio unificatore, privilegiando una oralità primaria e ricollegandosi al fonetismo proprio delle avanguardie storiche; oppure scegliere una oralità tecnologica ove predominano dispositivi plurilinguistici di arti e generi non più separabili per la determinazione dei significati. Ma non si tratta d’un dilemma ultimativo. Era appena cessata la seconda guerra mondiale e già venivano offerti dalla tecnologia elettronica quei mezzi, in primo luogo il magnetofono, che avrebbero dato al poeta la possibilità di fissare tutte le facoltà della voce che prima erano solo suggerite dai progetti su scala optofonica, come, ad esempio, gli spartiti polifonici dei simultaneismi francesi o le tavole parolibere futuriste.

Nasce così tutta una serie di ricerche che portano gradatamente il poeta sonoro ad allargare sempre più il proprio spazio fonico. Ad esempio, è evidente che un autore come Henri Chopin (1922), che fonda i suoi “Audiopoèmes” sull’accumulo esasperato della polifonia e sulle variazioni vocali manipolate elettronicamente, non sarebbe esistito senza tali mezzi tecnologici. Ma, paradossalmente, è altresì vero che il risultato che ne consegue vuol esprimere con la massima versatilità quelle che l’autore chiama le voci del corpo. (Fig. 1)

Ciascun autore pertanto può attingere dai mezzi elettronici quel tanto che gli serve per i suoi fini. E tuttavia la poesia sonora non è nata col magnetofono, così come la poesia lineare non è nata con la scrittura o con la scoperta della stampa, bensì dalla volontà di agire oltre i confini della pagina, verso dimensioni in cui la parola si fa materia di spettacolo, si fa vedere e ascoltare, non più solo leggere.

Ma tale volontà era inevitabile o mero atto gratuito? Per rispondere alla domanda occorre ricondursi agli inizi del ventesimo secolo tentando di evidenziare una serie di coordinate che percorrono la storia della letteratura moderna in quel momento di rottura che fu provocato dall’esplosione delle avanguardie.

Uno di questi percorsi consiste nella presa di coscienza d’una crisi dell’io sia nel campo del romanzo o del teatro (crisi del protagonista: uno, nessuno e centomila) o in poesia. A questa situazione corrisponde un altro diverso percorso, determinato da uno stato di scontento e di delusione che si esprime nelle forme del grottesco, dell’assurdo e del nonsense. Parallelamente si manifesta la tendenza alla scomposizione e ricostruzione della parola presa in se stessa come materia e strumento da riscoprire nei suoi più minuti meccanismi ed è ciò che si propongono il simultaneismo orfico francese, il futurismo italiano, lo zaum russo. Appartiene altresì a questo orientamento l’enfasi che si dà alla onomatopea e al rumorismo. Più attinente al campo della poesia sonora è la riscoperta dell’oralità come subordinazione della parola al senso dell’intonazione e al ritmo della dizione e in un momento più recente, nel secondo dopoguerra, si ha, soprattutto ad opera del movimento “Fluxus”, la rivisitazione delle avanguardie storiche e l’accento posto sul fenomeno di intermedia (intercodice) con la proposta di forme quali l’event, lo happening e la performance.

 

Crisi dell’io

 

È possibile individuare all’interno di ciascuna di queste tendenze, autori il cui lavoro presenta corrispondenze sotterranee. Così nell’ambito di quel fenomeno che si può etichettare come crisi dell’io, ci sembra corretto risalire alla seconda metà dell’ottocento allorché la crisi si è aperta clamorosamente con tre autori decisivi: Dostoevskij, Nietzsche e Rimbaud. Dostoevskij esaspera il motivo della doppiezza psicologica e della scissione tra l’essere e il sembrare del personaggio che poi sarà il tema del teatro pirandelliano. L’io stesso si fa spazio scenico ove il pensiero si scinde in distinti ma pure sempre avvinti crudeli dilemmi che lacerano la coscienza, ivi compreso quell’atto gratuito che verrà ripreso da Gide. Su questo accidentato calle non sarà disagevole trovare il monologo eccitato sincopato delirante di Celine, tutto plasmato sul parlato, e la dizione convulsa e trasgressiva dalla norma colloquiale, testa alla sovversione del pensiero e della logica, di Artaud, la cui proposta del “Teatro della crudeltà” potrebbe rientrare nell’agone polifonico di voci insubordinate dell’io dostoevskiano. (Fig.2)

Parallelamente, nel suo radicale ripudio ella tradizione, considerata alla stregua di mera zavorra, la figura del poeta veggente rimbaudiana vuole attuare di persona quello sregolamento di tutti i sensi che ritroveremo nella poetica futurista delle parole in libertà. La crisi nichilista di Rimbaud è il momento negativo di una cultura che ripudia se stessa in nome di quell’io che è un altro sempre sfuggente.

Tra i principali concetti elaborati da Nietzsche in quel suo linguaggio eracliteo di splendidi aforismi, troviamo quelli di “morte di Dio” e “volontà di potenza, superuomo” nonché la polemica contro il razionalismo che postulerebbe un ordine umano oggettivo immodificabile, privando di significato l’azione storica. Con “morte di Dio” Nietzsche propone di trasferire nell’uomo i valori di genealogia della morale e quello di responsabilità sulla propria esistenza in un processo continuo di autosuperamento, di volontà di potenza in costante evoluzione, condizione che “l’oltreuomo” accetta con dionisiaco trasporto.

In questo senso fortemente nietzschiana è l’avanguardia futurista che si presenta come il movimento più sovversivo verso la tradizione, ma al contempo quale riorganizzazione dei parametri artistici che ha appena sconvolto, tant’è che la sua posizione può risultare a cavallo tra la denuncia della crisi che investe tutte le espressioni artistiche e l’esigenza d’una ricostruzione estetica ed è sotto questo secondo aspetto che abbiamo voluto collocare tale movimento.

In un contesto assai differente e non esplicito ma pur sempre sottinteso, analoghe istanze di denuncia si esercitano nella seconda metà del novecento sul radicale sperimentalismo dell’americano William Burroughs (1914-1997) (Fig. 3).

Burroughs fu tra i primi ad operare in quella forma di poesia sonora che è il “phatic poem”, dove il testo è subordinato al senso dell’intonazione, instaurando una comunicazione emozionale in puntuale fedeltà con la propria situazione esistenziale. Queste forme di “reading” sono declamazioni ben diverse da quelle stigmatizzate da Marinetti nel già ricordato manifesto della “Declamazione dinamica e sinottica”. E in effetti la declamazione di Marinetti era una forma di “phatic poem”, come lo sono quella di particolare intensità espressiva di Artaud, ma pure quella ossessiva, ipnotica per iterazione ritmica di John Giorno (1936).

Il phatic poem lo ritroviamo pure in Europa nei poemi urlati di Julien Blaine (1942), le cui grida “se assumono un tono di sfida, per autoaffermazione ed esaltazione corporea, e di denuncia quali segnali della dismisura e della trasgressione, dall’altro si pongono come richiamo calorosamente umano, come dichiarazione di impegno o, addirittura, come vero e proprio atto di amore” (G. Fontana “La voce in movimento” cit. pag. 89).

Un altro autore francese, Joel Hubaut (1947) (Fig. 4) compone i suoi readings con una sorta di accumulazioni per sovrapposizione di frasi e al contempo con una progressione di volume sonoro sino ad uno stadio di parossismo orgiastico. Da parte sua l’italiano Lello Voce propone la “oratura”, riscrittura orale di un testo che in questa si identifica.

Tornando alle esperienze americane di readings, Anna Waldman, anch’essa ottima performer, a proposito della scrittura “beat”, scrive: “ritmi naturali del parlato americano, ritmi jazz, ritmi del viaggio in carro merci, ritmi industriali, rapsodie, abili giustapposizioni di cut-up verbale e una espansività che rispecchia il caos primordiale, tutto ciò è messo costantemente in opera. È un tipo di scrittura che fa sberleffi allo stile autocompiaciuto” (in AA.VV. “The beat book” a cura di A. Waldman, Il Saggiatore, Milano 1996). (Fig. vedi glossario)

Ma il vero suggeritore  del phatic poem è Jack Kerouak (1922-1969) che non considerava il jazz come semplice fonte di ispirazione, ma pensava che questo tipo di musica fosse un modello da assumere per la scrittura. Così analizzava le improvvisazioni degli amici musicisti nel ritmo e nel fraseggio, nelle sonorità e nella densità emozionale. Nei trenta punti della “dottrina e tecnica della prosa moderna” (in “Scrivere bop, lezioni di scrittura creativa”, Milano 1996) Kerouak scrive: “Soffia forte quanto vuoi (come il jazzman “soffia” le note), scrivi quello che vuoi senza fondo dal fondo della mente … non fermarti per pensare alle parole ma per mettere meglio a fuoco il disegno complessivo … componi in modo scatenato; indisciplinato puro, procedendo dal basso, più è folle meglio è”. Ciò richiama alla mente raccomandazioni analoghe che Marinetti dava nel manifesto “L’immaginazione senza fili e parole in libertà” ove porta l’esempio di chi si affanna nell’esprimere le emozioni provocate da un evento traumatico cui ha appena assistito: “Egli comincerà col distruggere brutalmente la sintassi nel parlare. Non perderà tempo a costruire i periodi. Si infischierà della punteggiatura e della aggettivazione. Disprezzerà ogni cesellatura e sfumatura del linguaggio e in fretta e furia vi getterà affannosamente nei nervi le sue sensazioni visive, auditive, olfattive, le sue fulminee impressioni, secondo la loro corrente incalzante. L’irruenza del vapore-emozione farà saltare il tubo del periodo, le valvole della punteggiatura e i bulloni regolari dell’aggettivazione. Unica preoccupazione del narratore rendere tutte le scosse e tutte le vibrazioni del suo io”.

Scrive Fontana: “… il reading è un fatto più automatico che interpretativo, in relazione al peso del dettato vocale intessuto nel verso” (pag. 189). È appunto il “peso” dell’intonazione a foggiare la realtà del testo: il senso va dove il tono comanda, vedi confer Tzara: “La pensée se fait dans la bouche”.

In un breve ma intensissimo testo corale di Carlfriedrich Claus (1930-1998) (in “Lautgedichten” 1965) l’urlo collettivo è puro espressionismo sonoro, mentre in altre prove Claus compone balletti vocalici seguendo schemi geometrici. (Fig. 5)

Nel 1966 Patrizia Vicinelli pubblica il poema sonoro “à.a.A.” inciso su disco flessibile allegato al n° 26-29 della rivista “Marcatrè” (Fig. vedi glossario). Ella stessa scrive: “… questa mia ricerca mira a provocare più l’inizio che il fine del discorso poetico… è diversa la realtà che si intravede nello spiraglio di questa porta stretta… la frase aspira ad andare oltre … e a morire per sempre… germina dal suo protoplasma semantico una sorta di balbettante fonematica micropittografia … una lettera ideale vorrei dire ideata nello stesso atto creativo”. (Fig. vedi glossario)

Per Sten Hanson (1936), musicista e poeta sonoro, cofondatore del gruppo svedese Fylkingen e degli omonimi festivals di poesia sonora, il text-sound work è condotto secondo strategie compositive quali l’articolazione di microparticelle linguistiche e suoni prelinguistici, manipolazione del tempo e polifonia che all’ascolto risulta fortemente espressionista.

Con l’estone Ilmaar Laaban (1929-2000) il poema sonoro si fa spazio di voci intersecantesi ove la parola spossata dal travaglio del suo farsi, viene alla luce nello spasimo della dizione, recando in se stessa il ricordo del grido ancestrale. (Fig. 6)

Le ballate sonore di Luigi Pasotelli (1926-1993), firmate dalla sua voce “rocailleuse”, sono costituite da un impasto di lingue, dialetti, neologismi, ecolalie in un continuum sonoro tra incubo e fantasie grottesche e satiriche. Pasotelli giocava pure sul peso della sua massiccia presenza scenica e sull’intensità del timbro cupo della voce con cui delineava un universo bizzarramente ferino, i “Serragli”. (Fig. 7)

Altro protagonista di reading è l’ungherese Endre Szkarosi (1952) che “utilizza la voce come moltiplicatore della dimensione spettacolare, esaltando con l’imposizione sonora della propria presenza scenica, il ruolo degli elementi impiegati nella performance: video, films, luci, macchine sceniche come contrappunto intermediale” (G. Fontana pag. 72-3, “La voce in movimento”, cit.). Szkarosi ama le atmosfere aggressive, tese tra ironia e azione drammatica. (Fig. 8)

In questo genere di phatic poetry si può inserire il “rap” poetico del giovane svizzero Jurzok, che su una base ritmica travolgente innesta un recitativo altrettanto ossessivo.

 

Figure del grottesco, dell’assurdo, del nonsense

 

Tali figure sono la spia d’uno stato d’animo di insofferenza e delusione nei confronti d’una condizione sociale e culturale quale è stata nell’epoca vittoriana in Inghilterra, Biedermeier in Germania e in genere, positivista. Il nonsense costituisce una logica dell’incongruo, la fantasia dell’assurdo, basti pensare che l’autore di “Alice in Wonderland” era un logico e matematico. Il nonsense è ritenuto un’espressione tipica anglosassone, ma numerosi esempi si ritrovano in Germanica e per l’Italia si potrebbe ricordare quel precursore quattrocentesco che fu il Burchiello, il cui poetare alla burchia trovò molti imitatori anche illustri come l’Alberti. Ma pure in epoca moderna ecco una poesia del nonsense di Yorik (Pietro Ferrigni, 1836-1895): “Una nave che salpa dal porto/saltellando con passo scozzese/è lo stesso che prendere un morto/e pagarlo alla fine del mese./Salto di Socrate/bacio di Giuda/la donna è nuda./Waterloo!”

Due immagini potrebbero fermare lo spirito del nonsense: l’episodio del gatto del Chesire in “Alice in Wonderland” che sdraiato su d’un muretto, sogghigna, poi un po’ alla volta, iniziando dalla coda, scompare del tutto tranne che per il sogghigno; l’altra è quella dedotta a corollario da Valery: se il mondo su creato dal nulla, il nulla a ben vedere vi traspare in filigrana. Il dubbio del non essere corrode non tanto la certezza nelle magnifiche sorti progressive quanto quegli argini che sono le varie metafisiche dell’essere.

Possiamo scoprire tutto un ambiente proto-dada, dai tedeschi Paul Scheerbart (1863-1915) e Christian Morgenstern (1871-1914) ai russi Aleksej Kručenych (1886-1968) e Ilya Zdanevich (1894-1975) (Iliazd) per indicare solo quelli che ci interessano come autori sonori. Scheerbart, in tre romanzi scritti nel periodo 1897-1902, introduce alcuni fonopoemi totalmente astratti; Morgenstern, nei “Canti grotteschi” (1905) ci dà la poesia astratta “Das grosse Lalulà” e la poesia visuale “Canto notturno del pesce” composta solo dai segni “breve-lunga” della metrica quantitativa classica, “modello essenziale di collocazione dell’elemento tempo nell’elemento spazio … mettendo in forse la sopravvivenza della parola come strumento poetico per definizione” (Adriano Spatola).

Il russo Kručenych (Fig. vedi glossario), coautore con Chlebnikov dello zaum (linguaggio transmentale) scrive poesie di sole consonanti o coacervi di parole senza senso come “un freno rotto che provoca una cascata di stridori consonantici” che chiama “smottologie”, un franare nell’incongruo di parole storpiate nei modi più assurdi.

Con Iliazd (Fig. vedi glossario) siamo alla formulazione radicale dello zaum: nel comporre il testo egli dà la priorità agli effetti musicali del parlato polifonico così da creare un sottile gioco di accordi e dissonanze, sottolineato dal sovrapporsi all’unisono di vocali o sillabe. Da questa singolare orchestrazione delle voci deriva l’ancor più singolare soluzione grafica del testo a stampa ove, come in uno spartito musicale, le voci sono stampate sovrapposte con grandi lettere che indicano la comunanza fonica di due o più voci.

È evidente che ci siamo spostati dall’apparente svago del nonsense sbadato e scherzoso d’un Lear o di altri autori coevi, ad un tono più risoluto tendente alla pura astrazione o alla rimozione della parola, sostituita da segni differenti, passando da un assurdo semantico ad un paradosso del gesto significante, che in Kručenych è già sfregio.

Ovvio che il transito al dada sia stato inevitabile e per giunta imposto dalla immensa assurdità che fu la prima guerra mondiale. Con il dada nato non a caso a Zurigo, nella neutrale Svizzera, da parte di transfughi d’ogni parte d’Europa, l’assurdità dell’essere si fa tema centrale d’una cultura che è pura reazione e gesto incoerente. Nasce la poesia fonetica di Hugo Ball (1886-1927), Raul Hausmann (1886-1971) (Fig. 9), Kurt Schwitters (1887-1948), mentre Tristan Tzara (1896-1963) preferisce insistere sugli incontri assurdi dei significati (una semantica rovesciata) con il poema “La première aventure céleste de M. Antipyrine” o il testo simultaneo a tre voci “L’amiral cherche une maison à louer” composto a sei mani con Marcel Janco e Richard Huelsenbeck (Fig. 10). Le poesie fonetiche di Ball sono invece una serie di eufonie astratte; egli parte dal suono d’una parola inventata cui saranno sottoposte eufonicamente quelle che seguono nel verso, la prima parola ‘dà il la’ alle altre. Già Cangiullo aveva parlato di musica ‘naturale’ del parlato e Luigi Russolo ne “L’arte dei rumori” (1913) aveva scritto che “esistono nel linguaggio ricchezze timbriche che nessuna orchestra possiede… la natura ha dotato questo strumento che è la voce umana, di rumori timbrici unici… i poeti non hanno ancora saputo trarre da questa sorgente inesauribile quegli elementi espressivi ed emotivi capaci di conferire al loro messaggio una risonanza umana”.

Si cerca di evidenziare al massimo quel sistema di ascolto che il poeta vive in permanenza, quasi fosse un risuonatore biologico: all’inizio il poema è sempre il rumore d’una consonante sottomessa all’influenza acustica d’una vocale. Il senso astratto della consonante si fa corpo e idea oggettivandosi nell’unione con la vocale. Si ha la sillaba, che se spogliata da ogni significazione, può dare origine a una nuova proiezione poetica per la sua natura di rumore timbrico. Come in pittura i valori plastici e cromatici si fanno protagonisti assoluti del quadro astratto, così i valori timbrici, tonali e ritmici, se usati puri, senza impacci semantici e sintattici, prefigurano il poema fonico futuro. Ball infatti non fa altro che allargare il processo eufonico dalla sillaba-parola all’intero verso.

Secondo Hugo Ball “dobbiamo ritirarci nella alchimia più profonda della parola, riservando alla poesia il suo più sacro terreno” ed è l’identico programma di Velemir Chlebnikov, “eterno prigioniero dell’assonanza” per il quale l’alfabeto è una “tabella dei rumori”. In effetti il dadaismo riprende dai futuristi Balla e Depero e da Chlebnikov (1885-1922) la fonia alogica, poesia sonora astratta ed occorre pure ricordare che al Cabaret Voltaire venivano recitati poemi simultanei del francese Henri Martin Barzun e l’“Ubu Roi” di Jarry. “Les chants nègres” furono una realizzazione collettiva con maschere, tonache, tamburi, danze: una specie di messa funebre, penso non immemore delle serate futuriste del 1913-14.

In questo ambiente Ball lesse i suoi “Versi senza parole” indossando un vestito di cartone azzurro, scarlatto e dorato e un cappello da sciamano, cilindrico: “Ho iniziato con “Gadji beri bimba”, gli accenti si facevano più pesanti, l’espressione si faceva più grave con l’intensificazione delle consonanti (Fig. 11). Ben presto notavo che i miei mezzi di espressione, quando ho voluto essere serio, e l’ho voluto ad ogni costo, non corrispondevano più alla pompa della messinscena… a destra sul leggio avevo “Labadas Gesangen den Wolken (Il canto di Labada alle nuvole) e a sinistra “Elephanten Karawane” (La carovana degli elefanti)… (Fig. vedi glossario) il ritmo strascicato degli elementi mi aveva permesso un ultimo crescendo, ma come continuare sino alla fine? Ho notato allora che la mia voce, che sembrava non avesse scelta, assumeva una cadenza da antica lamentazione sacerdotale nello stile della messa che si canta nelle chiese cattoliche. Non so cosa mi ispirava questa musica, ma andavo cantando le sequenze di vocali in recitativi al modo liturgico. La luce elettrica si spense come stabilito e sono stato portato via coperto di sudore come un magico vescovo che sparisce nell’abisso” (da “Die Flucht auf der Zeit” (La fuga nel tempo), Monaco, 1927).

Da quel momento si apre per il poeta sonoro la possibilità di improvvisare o di costruire linguaggi personali di puri fonemi di senso astratto; il significante prende il largo per acquistare uno spazio semantico composto dalla ‘fattura’ che ciascun autore vuole imporre. (Fig. 12)

Così Raoul Hausmann improvviserà in puro stile dada una serie di discorsi assurdi composti da balletti alfabetici; così il dada Kurt Schwitters (Fig. 13) giungerà a comporre con l’alfabeto una sonata in forma classica, la “Ur-sonate”, sonata ancestrale (1925-27), cavallo di battaglia di alcuni poeti sonori contemporanei come Giuliano Zosi e Jaap Blonk.

Così pure, nel secondo dopoguerra, alcuni autori francesi, usciti dal gruppo lettrista, i cosiddetti “Ultralettristi”, improvviseranno una serie di testi costituiti da impasti informali di grida, sospiri, acrobazie glossolaliche: tali le “Instrumentations verbales” di Jean-Louis Brau, le “Megapneumies” di Gil Wolman (1929-1995) e soprattutto i “Crirythmes” di François Dufrêne (1930-1982).

Ma già il caposcuola lettrista Isidore Isou (1925) (Fig. vedi glossario) aveva introdotto suoni dell’alfabeto fonetico internazionale, oltre al grido, al grugnito, al colpo di tosse, al russare, al gemito, ai gargarismi, ai rantoli e così via nel poema “Larmes de jeune fille, poème clos”. Ciò che distingue i lettristi dagli ultralettristi è il fatto che, pur componendo una poesia astratta, rimangono ancorati curiosamente alla forma tradizionale della poesia, al sonetto, ad esempio, in evidente contraddizione con se stessi. E tuttavia occorre segnalare che molte composizioni lettriste come “Rituel somptueux pour la selection des espèces” di Isou o la “Marche des barbares blancs” di Maurice Lemaître (1928) siano lavori di particolare intensità espressiva. (Fig. 14-15)

Nel secondo dopoguerra si è avuta una rivisitazione del dadaismo, con autori come il pittore Mimmo Rotella (1918-2005), il francese Michel Seuphor (1901-1980),  il gruppo canadese “The four horsemen” composto dal quartetto bp Nichol (1944-1988), Steve McCaffery (1948), Paul Dutton e Rafael Barreto-Rivera. Questo gruppo (Fig. 16), poi scioltosi per la morte improvvisa di Nichol, agiva in contrappunto fonetico, creando impasti timbrici ed effetti pluriritmici inediti.

Nel manifesto dell’“Epistaltismo” Rotella auspica una rivoluzione della sintassi e del lessico in favore d’un linguaggio tutto da inventare. La sua rivisitazione dada è tutta in chiave ironica e comica.

Il critico e pittore Michel Seuphor, cofondatore del gruppo degli astrattisti “Cercle et Carré”, già dal 1927 aveva composto una serie di poemi sonori rumoristici come “Tout en roulant les RR”, alcuni con accompagnamento dell’apparecchio “Russolophone” di Luigi Russolo (1930).

Allo spirito scanzonato del nonsense si richiama Paolo Albani (1946), membro del gruppo internazionale “Oulipo”. Albani utilizza  tecniche di spiazzamento semantico con effetti godibili come in “Carillon” tutto un “plin plin” che, a detta dell’autore, “non va assolutamente letto ma solo ascoltato con gli occhi” o come i “Dubbi esistenziali di un’oca francese” che è una sequela di “quoi? quoi? pourquoi?”. (Fig. vedi glossario)

Così pure Corrado Costa (1929-1991), “penna sagace e sottile… partendo da scritture terse e brillanti, con i suoi modi pacati ed il suo accento emiliano, lasciava impronte sonore indelebili, passando attraverso l’ordine delle cose e distendendo veli surreali, come un fantasma giocoso, ma inafferrabile e conturbante” (Fontana, pg. 209).

Due autori entrambi viennesi, presentano affinità pur mantenendo stili del tutto autonomi: entrambi sono ottimi istrioni della lingua sia nella elocuzione che come prestidigiatori della parola: Ernst Jandl (1925-2000) e Gerhard Rühm (1930). Jandl (Fig. vedi glossario) svariando fra le parole va a pescare bisticci ove scopre risonanze nascoste, sviando talvolta nel nonsense. Le sue poesie vocali – Lautgedicht – acquistano ancor più rilievo per l’elocuzione ricca di sfumature e sono le variazioni nel tono e nel gesto della voce, se così si può dire, e ancora nelle cadenze che suggeriscono un modo espressivo dominato dall’ironia: ad esempio, filastrocche composte da pezzi di nomi come “Ode auf N”, ode a Napoleone, ove il nome intero mai compare, oppure la permutazione delle lettere della parola ‘film’ che diventa, anche visualmente, una lunga striscia a simboleggiare la pellicola cinematografica. (Fig. 17)

Gerhard Rühm, compositore, poeta, regista teatrale e disegnatore, è nato a Vienna nel 1930 ed è stato cofondatore del Wiener Gruppe (1967), sorta di cabarè sperimentale che ha segnato un importante momento culturale a Vienna. Le sue prime poesie sonore (1950) sono in dialetto viennese, ma presto egli organizza la materia linguistica sì da privarla di senso tramite permutazioni e combinazioni foniche complesse. Il tono e il timbro della pronuncia dà alla parola una sorta di erotismo acustico del tutto inedito. La voce è calma e monocorde, scevra di effetti patetici, una ‘voce da camera’. Sorprendenti effetti poi scaturiscono dall’invenzione di azioni sceniche: ad esempio seduto dietro ad un tavolo, un libro aperto davanti a lui che tiene nella mano destra un ninnolo sonoro col suono del quale punteggia i borborigmi d’un infante, oppure ancora, posato sul tavolo e messo in azione a ticchettare un segnatempo, egli inizia a leggere trafiletti in quotidiani di genere politico, economico, di cronaca nera o sportiva ma sempre seguendo il ritmo del segnatempo sì da mutare il pezzo di prosa in versi e ciò mediante l’artificio di raddoppiare alcune sillabe del testo. La dizione poi prosegue sempre mutando il ritmo in modo più o meno celere. Nelle sue performances Rühm dà rilievo ad una inconsueta funzione gustativa della voce con la quale gioca come un clown con i suoi attrezzi. (Fig. 18)

 

Sovversione e ricostruzione della parola

parte prima: il simultaneismo

 

Nei primi anni del novecento si sviluppa tutta una serie di analisi dei meccanismi che presiedono alla comunicazione poetica. Accanto a proposte di rumorismo e di gestualità astratta del significante, si colloca il simultaneismo francese. È verso il 1912 che Henri Martin Barzun avverte la necessità di adeguare sia forme che tecniche del comporre poetico alla sempre maggiore complessità sociale che non risulta affatto unanime né riducibile all’individuo. Nelle “Villes Tentaculaires” (1896) Emile Verhaeren aveva già dipinto in poesia lineare il nuovo mondo del sindacalismo operaio, dell’internazionalismo intellettuale e scientifico, dei trust industriali, dello sviluppo tecnologico accelerato che porta all’invenzione dell’auto, dell’aereo, della radio, ecc…

Secondo Barzun (1881-1974) il poema monocorde diventa psicologicamente falso e tecnicamente impotente a rendere tali complessità sociali e la soluzione che propone è quella di sostituire la forma in versi con un coro concertante di voci poetiche fra di loro concordanti o dissonanti. Nel biennio 1912-14 Barzun, con Sebastien Voirol e Fernand Divoire, fonda la rivista “Poème et Drame” sulla quale dibatte questi temi, soprattutto in tre saggi: “L’Ere du Drame”, “Du Symbol au Drame” e “Voix, Rythmes et Chants Simultanés, Esthetique de la Poésie Dramatique”. Nasce l’idea d’una poesia simultanea ove il processo lineare successivo della forma tradizionale viene sostituito dal “chant dramatique simultané” capace di rendere “toutes les voix, toutes les passions, toutes les présences, toutes les forces de cette vie et de cet univers” grazie a “l’ampleur polyphonique” e al “lyrisme multiple pluridimensionale: ainsi les ordres psychologiques fondamentaux, à l’état de voix et de présences poétiques simultanées, dramatisent l’oeuvre”. Come i cubisti ci danno le facce simultanee della materia polimorfa e i contrasti simultanei dei colori complementari, così il poeta deve esprimere direttamente la vita e “la voix, réalité plastique du poème” deve sostituire il verso.

Negli anni 1922-23 al teatro “Art et Action” i registi Edouard Autant e Louise Lara, genitori del futuro regista Claude, adattano per la scena il terzo episodio, “Panharmonie Orphique” del grande poema simultaneo “Orphéide” di Barzun, che era già stato composto negli anni 1913-14 (Fig. vedi glossario) 18 voci di attori declamanti dietro a maschere in una messa in scena cubista disegnata dal pittore musicalista Henri Valensi. L’intero poema fu poi esposto nel settembre 1927 in una versione manoscritta di 250 tavole di cm. 20x50 ciascuna. Paradossalmente il poema rimane tuttora inedito: sono 422 pagine raggruppate in 7 episodi-affreschi, ciascuno dei quali possiede una struttura visuale ben precisa che è compiutamente percepibile solo allineando le singole pagine in unica successione: ne risultano 7 giganteschi poemi visuali. Ogni pagina presenta, allineate in verticale, come le note di uno spartito musicale, più voci simultanee, da due sino a diciotto. L’azione si scinde nelle voci, la parola spesso evapora in onomatopee o tra voce e voce, dando luogo ad un pluralismo di espressioni fra di loro correlate.

L’orfismo poetico, come lo chiama l’autore, riferendosi al simbolo alle sette code della lira d’Orfeo, inaugura una terza dimensione verbale, dopo la successione monodica e l’alternanza drammatica; il passaggio al canto collettivo è orchestrato per relazioni spazio-temporali: voci in primo e secondo piano, onomatopee umoristiche di sfondo, con una accorta regia delle sonorità verbali, vera musica del parlato. Il testo si presenta dunque come visualizzazione optofonica dell’azione simultanea e al contempo successione cinematografica di pagine-fotogrammi.

Fernand Divoire (1883-?), pioniere della “Radiophonie”, è uno degli autori che accolgono la proposta simultaneista di Barzun. Nel 1914 pubblica nel cahier IX di “Poème et Drame” un poema dedicato alla danzatrice Isadora Duncan, “Exhortation à la Victoire” (Fig. vedi “Le avanguardie e l’iconismo poetico”). L’opera composta da momenti solisti e da cori di voci maschili e femminili, fu rappresentata in matinée dalla compagnia teatrale “Art et Liberté” il 3 giugno 1917 alla Comédie des Champs Elysées insieme alla “Montagne” di Barzun e al “Sacre du Printemps” di Voirol. Seguirono altre composizioni simultaneiste: la prosa sinfonica “Naissance du poème”, che fu poi registrata su disco “La voix de son maître” nel 1931, uno dei primissimi dischi di poesia sonora: in questo testo non c’è gerarchia fra la voce del poeta che sta creando e quella delle undici muse che gli suggeriscono le parole. Poi: “Les Amis et les Ennemis” (1921), “Commentaire du Pater” (1927), “Ivoire au Soleil” (1922), “Poème à trois plans concentriques” e infine “Marathon, épisode tragique” (1924) che confronta la vittoria ateniese contro i Persiani con quella della Marna nella prima guerra mondiale (trasmesso alla Radio Eiffel a tre riprese nel 1931).

Nel 1913 la rivista di Barzun “Poème et Drame” pubblica un frammento del poema simultaneista di Sébastien Voirol “La Sacre du Printemps” (idem) pochi mesi dopo la rappresentazione a Parigi del celeberrimo balletto di Strawinskij. Il testo era preceduto da un breve commento: “… l’idée nous est venue de suggérer une forme poétique permettant de superposer des rythmes et des sonorités, de faire éclater orchestralement des harmonies verbales, ou plutôt vocales, multiples, intenses de vie, en accordant leurs sens tantôt aigus, tantôt douloureux, dans des proportions inouïes jusqu’à ce jour … Les superpositions des rythmes, les enchevêtrements des thèmes, les ruptures des cadences admirés chez un Strawinsky, appartiennent indiscutablement à tous les arts; ils viennent de renouveler la musique dans le temps même où votre (si rivolge a Barzun) esthetique nous apporte la promesse d’une poésie polyrythmique qui ouvre aux poètes un horizon inexploré…” (“A propos du “Sacre du Printemps”, “Poème et Drame”, 1913).

In quest’opera orfica, come in altri due brevi pezzi successivi “Ladies in the wind” e il balletto “Tahi-Nui”, entrambi inediti, compare una scrittura a più colori per differenziare e personaggi e stati d’animo, e l’orchestazione dei motivi con un gioco di sovrapposizioni delle voci per assonanze e sottili armonie eufoniche, denotano in questo autore l’amalgama di due istanze apparentemente contraddittorie, ovvero la persistenza di delicate sfumature psicologiche d’un io ancora simbolista e l’adesione alle nuove idee orfiche.

Nicolas Beauduin (1880-1960), già promotore nel 1911 del movimento “Paroxysme”, pubblica sulla sua rivista “La vie des lettres”, nouvelle série VIII, février 1922, una serie di “Poèmes synoptiques sur plusieurs plans” ove per piani si intendono procedimenti di simultaneità a due o più voci. Ecco alcuni titoli: “Au jardin qui réjouit le coeur” e “Music-halls”.

Nel gennaio 1916 Pierre Albert-Birot (1876-1957) fonda “Sic”, rivista mensile che in quattro anni segna una pagina importante della storia letteraria non solo francese. La rivista si situa al crocevia tra futurismo, dada e surrealismo, pubblicando i primi testi di Philippe Souplault, Raymond Radiguet, Reverdy, Drieu La Rochelle, Paul Dermée, Aragon e molti testi di Apollinaire, Tzara e di futuristi italiani, nonché stampe di Severini, Balla, Prampolini, Depero, Survage, Zadkine. Come suggeriscono i titoli dei suoi poemi al contempo visuali e sonori, il gusto di Albert-Birot risulta affine a quello futurista ed in particolare alle verbalizzazioni astratte di Balla e Depero: “L’avion”, “Chant I”, “Métro”, “Balalaika”, tutti testi simultaneisti. (Fig. 19)

L’idea d’una poesia polifonica fu ripresa nel secondo dopoguerra dal musicista Arthur Pétronio (1897-1983), figlio del famoso trasformista Fregoli, con la “Verbophonie Syncrétique”, le cui realizzazioni datano dal 1964 in poi: “Tellurgie”, “Nouvelle  Innocence”, “Cosmomose” sono polifonie verbo-rumoristiche in costruzioni a carattere sinfonico. Ma la prima idea risale al 1919 con “La corse à la lune” a sei voci più contrabbasso e batteria, eseguita alla Salle Heystée di Amsterdam. All’origine una intuizione di Kandinsky e di Pétronio in un caffè di Amsterdam nel 1917, mentre ascoltavano recitare da parte di un gruppo di artisti in lingue diverse un “Poème-Conversation” di Apollinaire. Essi ebbero ad osservare che nel bruhaha delle conversazioni disordinate il gioco delle vocali si pone in rilievo creando un ambiente sonoro simile ad una sinfonia verbale. Lo stesso Kandinsky suggerì a Pétronio l’idea d’una sinfonia di rumori ove le parole non fossero altro che pretesti per evidenziare la materia fonematica sottesa a queste. (Fig. 20)

Il “Poème-Partition” del francese Bernard Heidsieck (1928) è costituito da ossessive iterazioni del vissuto quotidiano; la poliritmia è data da una lettura giocata su differenti piani acustici, una sorta di teatro interiore della coscienza e non sarebbe inopportuno rifarsi a tal proposito al concetto di “scrittura ad alta voce” espresso da Barthes nel suo “Le plaisir du texte” (1973) ove si parla di ‘grana’ della voce come un misto erotico di timbro e linguaggio. (Fig. 21)

Altro autore di raffinate “Text Sound Compositions” è l’americano Charles Amirkhanian (1945): la sua composizione è tutta giocata su precisi contrappunti ritmici d’una esigua materia verbale: una poesia sonora che è un esempio di nitidezza nel congegnare macchine verbosonore.

Nel 1960 il tedesco Ferdinand Kriwet (1942) pubblica i “Sehtexten” (testi visuali) che sono poemi concreti che rinnovano una tradizione calligrafica medievale di forme circolari. I successivi “Hörtexten” (testi da ascoltare) sono composti da collages di materiali sonori raccolti nelle situazioni più disparate, ad esempio durante le partite di calcio o assemblee politiche. Ma sono soprattutto particolarmente intense le conversazioni a più voci intersecantisi e diversificate nei timbri e tonalità vocali. Nelle sue performances Kriwet procede con simultanee proiezioni di fotogrammi a più schermi, su pareti e soffitti, creando suddivisioni sempre cangianti del discorso verbofonico-visuale, un “texttheater” le cui coordinate organizzano parlato, mimica, gesto e visualità. (Fig. vedi glossario)

Nanni Balestrini (1935) già aveva composto nel 1963 i “cronogrammi”, collages di poesia visuale a sovrapposizione e intersecazione di frammenti di frasi con effetti di semanticità caotica e assurda che fanno pensare alla poesia dada di Tzara e su d’un piano diverso alla più recente “Poesia encontrada” del portoghese Antonio Aragao. Autore sperimentale per eccellenza, in poesia sonora Balestrini è interessato a dense tessiture polifoniche e tale ad esempio è la composizione a 4 voci tutta sussurrata. (Fig. 22)

 

Sovversione e ricostruzione della parola

Parte seconda: il Futurismo

 

Tra le idee di Marinetti che ancor oggi possono interessare, c’è quella della “ossessione lirica della materia” che il poeta futurista deve possedere con lo strumento della analogia, quel “profondo amore che unisce le cose lontane” e che per suo tramite egli potrà “animalizzare, vegetalizzare, mineralizzare, elettricizzare, liquefare lo stile”. La materia stessa è panteisticamente sentita come animata, a far corpo con l’io in un mondo metaforico di soggettività ed oggettività indifferenziate, tant’è che le “parole in libertà” appaiono registrazioni fonomimetiche di stati d’animo ove l’io scompare per dar luogo alla deriva dell’automatismo psichico, sorta di attrazione magnetica delle situazioni liriche in uno stato che Roman Jakobson chiama ‘agrammatismo’ ovvero condizione in cui la frase degrada a semplice accumulo di parole.

Nel poema “Zang Tumb Tuuum” (1914) lo stato magmatico della materia espressiva è trattato mediante due tecniche, il montaggio a intersezioni di stati d’animo e la simultaneità plurivocale. La prima è particolarmente evidente nel finale del secondo capitolo “Mobilitazione” e cioè nella “Carta sincrona” ove giocano pure effetti sinestetici: “uomo di silenzio dorato”, “cascata di suoni verdeggianti”, “parabola stanca di suoni azzurri”, “pozzanghera di rumori sporchi”. Altro esempio di montaggio, nel capitolo “Contrabbando di guerra (Rotterdam)” è la geniale trovata di tenere una sorta di contabilità degli stati d’animo contraffacendo la forma del libro mastro commerciale a partita doppia. (Fig. vedi “L’avanguardia e l’iconismo poetico”)

La tecnica simultaneista è presente sia nel primo capitolo “Correzione di bozze + desideri in velocità”, sia nelle due pagine finali del capitolo “Ponte” ove otto voci esprimono sincronicamente stati d’animo differenti.

“Zang Tumb Tuuum” rappresenta l’acme delle soluzioni tecniche parolibere e per Julios Evola (“Arte Astratta”, 1920) è “un brutale tuffo purificatore di soggettività orgiastica” in cui il primitivo si sposa con l’astrazione geometrica in una sorta di “Sacre du printemps” poetico. I due aspetti sia visuale che fonico sono intimamente collegati in quanto la visualità, risolta in esiti di “tipografia libera espressivamimodeclamata di cui era d’altra parte maestro Marinetti. Le pagine scorrono in una serie di alterazioni di caratteri e chiaroscuri tipografici che suggeriscono le più svariate possibilità di porgere la voce. E sotto un altro aspetto il poema può considerarsi una sequenza filmica di immagini grafiche, analoga al poema simultaneo “Orphéide” di Barzun.

Tra i futuristi tre autori si distinguono per l’interesse che portano verso l’aspetto fonico della parola: Balla, Cangiullo, Depero. Balla per il rumorismo linguistico, Cangiullo per gli esiti di “Piedigrotta” e Depero per l’esasperazione onomatopeica.

“Piedigrotta” è un grande poema ove ogni pagina è una tavola parolibera in se stessa compiuta, che al contempo partecipa alla sequenzialità dell’opera nella sua interezza. Il testo si può definire una esplosione pirotecnica di trovate sia verbali che grafiche e foniche in stretta analogia con la celebre festa napoletana. Non a caso fu al centro di due famose serate al salone della esposizione futurista permanente a Roma, il 29 marzo e il 5 aprile 1914. (Fig. vedi “L’avanguardia e l’iconismo poetico”)

La “Poesia pentagrammata” è introdotta da un breve saggio che recita “… la poesia pentagrammata … dando simultaneità alla Poesia e alla sua Musica naturale, in essa naturalmente contenuta, aggiunge una nuova estensione di terreno vergine al campo poetico”. Qui è il concetto di ‘musica naturale’ insita nel linguaggio, che ci offre una definizione della materia sulla quale lavora il poeta sonoro, sui caratteri specifici del parlato da non confondersi con l’artificialità del canto.

 

Sovversione e ricostruzione della parola

Parte terza, onomatopea e rumorismo

 

Nel 1916 il pittore Fortunato Depero (1892-1960) pubblica il manifesto “L’onomalingua, verbalizzazione astratta” che “è derivata dalla onomatopea, dal rumorismo, dalla brutalità delle parole in libertà futuriste. È il linguaggio delle forze naturali: vento, pioggia, mare, fiume, ruscello, ecc… degli essere artificiali rumoreggianti creati dagli uomini: biciclette, tram, treni, automobili e tutte le macchine, è l’assieme di tutte le emozioni e delle sensazioni espresso con il linguaggio più rudimentale e più efficace. Depero creò e declamà queste sue originali composizioni davanti a folle entusiaste e ostili. Nei monologhi dei clowns e dei comici di varietà vi sono tipici accenni alla onomalingua che avranno futuri sviluppi, costituendo la lingua più indovinata per la scena e specialmente per le esagerazioni più esilaranti. Con l’onomalingua si può parlare ed intendersi efficacemente con gli elementi dell’universo, con gli animali e con le macchine. L’onomalingua è un linguaggio poetico di comprensione universale per il quale non sono necessari traduttori”. (Fig. 23)

Ci sembra evidente da questa presentazione la stretta analogia con il concetto di “ossessione lirica della materia” teorizzato da Marinetti. Nelle sue “verbalizzazioni astratte” Depero porta al parossismo il procedimento di formazione di unità lessicali che costituisce l’onomatopea: l’oggetto o lo stato d’animo non sono descritti ma agiti rumoristicamente: il desiderio sessuale mugola la propria timidezza nel balbettìo della “Verbalizzazione astratta di signora”, un appetito canino guaisce in “Tramvai”, l’acqua chioccola e schiuma in “Si iO VLUMMIA-torrente”, il “Brindisi all’hotel Fifth Avenue” sventaglia scampanii.

Ricorda Carlo Belli, pittore conterraneo di Depero: “Sento ancora la sua voce straordinariamente mobile quando mi scandiva le sue poesie sonore; non avevo la forza di guardarlo nel momento in cui irrompeva in queste filastrocche sonore; secondo la intensità, la grassezza o la scioltezza dei suoni, le sue labbra si piegavano ad esprimere uno sprezzo violento, il suo volto si schiariva in un improvvisa illuminazione oppure i suoi occhi diventavano feroci spilli di catrame. Ne scrisse molte e io le copiai con diligenza e poi persi il quaderno” (da “Memoria di Depero” in “Catalogo Depero”, Bassano del Grappa, 1970) (Fig. vedi glossario). Ed è un peccato che le poesie che Depero recitò da radio Milano e radio Genova per la pubblicità di varie ditte, non siano state registrate e si siano perse nell’etere, forse a disposizione di qualche curioso extraterrestre.

Pur restando ai margini degli esperimenti di Chlebnikov e Kručenych, Vladimir Majakovskij (1893-1930) “si mostra molto attento alla corposità, allo spessore tangibile delle parole, agli intrecci acustici, ai calembours” (Ribellino). Esaltando la dissonanza e la coloritura violenta, seppellisce la melodiosità della tarda poesia simbolista sotto un tripudio di rumori. Se ne ha una testimonianza nella lirica “Rumori, rumoretti, rumoracci” (1913) o in quella “Di strada in strada” (1913) e ancora nella “Ordinanza all’esercito dell’arte” (1918) ove “le astratte tessiture fonetiche persistono anche quando il poeta affronta temi da sermone e da editoriale” (Ribellino), tanto da proporre l’orchestrazione di sonorità aspre come modello del rapporto tra il poeta e la rivoluzione.

Se Majakovskij è poeta rumorista, Vasilij Kamenskij (1884-1961) si affida alle possibilità dell’onomatopea per trarne linee melodiche in una sorta di esenismo eseguito con strumentazione futurista, tanto da sostenere che “il legame tra le parole non è obbligatorio perché gli accordi della musica parlano per se stessi” (conferenza del 1916). Nella poesia “L’Usignolo” troviamo affinità con i testi sonori di Depero: gli effetti onomatopeici ad imitazione dei trilli dell’uccello si amalgamano col discorso lirico e sono tra i risultati più intensi di quel raffinato jonglerismo che fu la divisa poetica di Kamenskij. (Fig. 24)

Tornando al futurismo, il grande pittore Giacomo Balla (1871-1958) si era pure esibito in verbalizzazioni astratte di qualità più umoristica che onomatopeica. La “Plastica rumoristica BALTRR” (1914) (Fig. 25) di cui disegnò molte varianti, è un racconto-immagine di come, rincasando ad ora tarda e non riuscendo a far scattare la serratura difettosa (trelsì trelnò, trelsì trelnò), si fosse introdotto dal pianerottolo al ballatoio (tich tech plop plep) e da questo per una finestra nel proprio alloggio (taaach!). “Discussione di due critici sudanesi sul futurismo” è uno scambio di nonsense gutturali che deve essere declamato con accompagnamento di pianoforte stonato e chitarra. Puro rumorismo è “Macchina tipografica” a simultaneità di dodici voci, ciascuna delle quali deve ripetere un suo proprio rumore ritmico. Rumoristico è il finale gag sonoro di “Funerale a piazza Termini” che suggella una marcia funebre col ‘me ne infiiiiischa’ d’un treno. Protodada è poi la sintesi teatrale “Sconcertazione di stati d’animo” ove quattro persone, ciascuna vestita in modo diverso dalle altre, devono gridare con forza numeri, lettere alfabetiche, gestire in silenzio brevi azioni, pronunciare con dolore, piacere, sveltezza, forza delle esclamazioni e poi fuggire dalla scena velocemente a zig zag.

Del boemo Ladislav Novak (1925-1998) pubblicammo su “antipiugiù” n° 4 (Torino, 1966) una serie di poemi onomatopeici: “Uccellino nei cavi di acciaio della città”, “Aviatori”, “Sveglio”, “Il canto tragico”, “Marcia trionfale”. Più interessanti i successivi poemi di ‘tachisme fonetico’ realizzati presso il centro di musica elettronica di Stoccolma, quando fu invitato nel 1968 dal Gruppo Fylkingen: “La structure phonetique de la langue tchèque”, “Ceterum autem” in latino ove vien ripetuta la frase con la quale Catone il Censore chiudeva i suoi discorsi: “Ceterum autem Carthaginem delendam esse”.

 

Sovversione e ricostruzione della parola

Parte quarta: lo zaum russo

 

Velemir Chlebnikov è con Kručenych l’inventore dello zaum, linguaggio transmentale. Ma lo zaum di Chebnikov è ben differente. Egli inventa la “verbopoiesi”, cioè isola una radice lessicale e procedendo per aggregazione di suffissi e prefissi crea un magico sopramondo di neologismi nei quali si muove con aria assorta, sostantivando aggettivi, verbalizzando sostantivi. Poi c’è la “fonoscrittura” che è ricerca di espressività fonico-emotive nelle parole, in assoluta indifferenza verso il significato; infine l’“alfabeto mentale” che vuole costituire una lingua di geroglifici sonori per concetti astratti, resi per lemmi arbitrari, una “lingua stellare universale”, un tentativo di ricreare una lingua ancestrale comune a tutti gli uomini. Un esempio di fonoscrittura è “Bobeobi” (1908) basata su analogie tra suoni e colori; un esempio di verbopoiesi è “Esorcismo col riso” ove la radice di ‘smech’ (riso) è coniugata con prefissi e suffissi sì da creare un testo costituito unicamente da tali successive modificazioni. Se Barzun e Marinetti sono ingegneri della parola, Chlebnikov ne è il chimico. Di recente due autori russi, Valeri Scherstjanoi e Dmitry Bulatov si sono ricollegati a questo autore, che il poeta per i poeti. (Fig. 26-27-28-29)

È molto probabile che Joyce ignorasse lo zaum di Chlebnikov, certo è che nella “Finnegans Wake” (1939) la condensazione delle parole in una sorta di lingua agglutinante presenta singolari affinità col tipo di operazioni del russo.

Nella raccolta “Phantasus (1916) il tedesco Arno Holz (1863-1929) procede in una fitta serie di esperimenti linguistici, svariando da forme agglutinanti, vere e proprie parole-valige, ad altre al contrario monosillabiche: un cantiere di invenzioni neologistiche che è tutto da ristudiare.

Nel 1959 un altro tedesco, H.G. Helms (1932), pubblica “Fam’Ahniesgwow”, un grosso lavoro sperimentale sulla commistione di più lingue, richiamandosi esplicitamente all’esempio di Joyce. Nella stessa pubblicazione Helms presenta pure un disco con letture di alcune parti del suo lavoro.

Il francese Altagor, pseudonimo di Jean Vernier, dal 1947 al 1960 ha composto un “Discours Absolu” interamente fatto con neologismi astratti, in quella che ha chiamato “Metapoésie”. La registrazione su nastro magnetico comporta la durata di sei ore di una sorta di cantilena a cadenze e consonanze ‘sursignifiantes’ che fa pensare al canto d’un bardo celtico. (Fig. 30)

In “Artikulationen” (1960) il tedesco Franz Mon teorizza una forma di poesia sonora quale “danza delle labbra, della lingua, dei denti, movimenti di una sostanza che crea da se stessa le proprie direzioni alle soglie dell’articolazione… le vibrazioni vocali assorbono l’aria, la stregano, la rigettano, la succhiano, foggiando sostanze sonore elastiche, cupe, soffici, brillanti, estese, aspre… il grido primitivo si fa segnale variamente interpretabile… più l’impulso è intenso, più l’espressione è radicale e più si fa netta la separazione dall’io che parla”. Molto interessante è la sua ricerca sulla trasformazione della parola in altra per graduali cambiamenti di composti sonori: la parola si fa proteiforme trasmutandosi a minimi scambi fonematici e per tale via si stabilisce un percorso inanellante i vocaboli in una linea fonica tendenzialmente senza fine. (Fig. 31)

Jackson Mac Low, nato a Chicago nel 1922 e morto a New York nel 2004, fu allievo di John Cage alla New School for Social Research. Era il periodo nel quale Cage teorizzava e praticava la casualità nella composizione musicale, Cunningham nella danza e pure Mac Low applicò la casualità nella composizione letteraria.

Nel 1966, su “antipiugiù” n. 4, pubblicammo un lungo testo di Mac Low, “The Pronouns, a collection of 40 dances”, precisa scaletta di danze, trattata come testo di poesia, trascurando tutti i problemi della loro messa in scena mimica. I “Pronomi” sono un modello di soluzione estrema del rapporto fra scelta e casualità, dell’urto fra una poetica del disordine e una poetica dell’ordine che impone regole al disordine. Così pure nelle “Simultaneities” Mac Low usa più voci articolate seguendo un ritmo libero in modo da fare risaltare l’impasto il più casuale possibile o come in “Matched Asymmetries” (1960), poema generato da testi in lettura simultanea con risultato fonico non intenzionale. (Fig. 32)

Questo accostamento tra diversi testi ci fa sovvenire che verso gli anni 1980 Sergio Cena e Arrigo Lora Totino avevano declamato a due voci contemporaneamente coppie di diverse traduzioni dei racconti di Kafka o degli inizi dell’Iliade e dell’Odissea evidenziandone le differenze e spesso le incongruenze.

Fra le prime ricerche di poesia sonora, nel biennio 1966-1967, Lora Totino compose i “Fonemi” consistenti nella frammentazione in particelle sonore di eventi parlati precedentemente registrati, e ciò tramite l’apparecchio elettronico detto ‘generatore di impulsi’. In tal modo è possibile evidenziare i grani sonori che costituiscono la materia della parola – voce, alcuni già significanti, altri sotto questa soglia, i fonemi, appunto. Si tratta di una specie di cut-up infinitesimale applicato al parlato.

 

L’intonazione

 

È ovvio che i parametri dell’intonazione e del ritmo del parlato sono sempre presenti in qualsiasi evento fonopoetico o teatrale, ma se essi vengono accentuati sino a farne il carattere distintivo d’una determinata ricerca, occorre trattarne più diffusamente.

Prendiamo il caso di Gertrude Stein (1874-1946) e del suo “Completed portrait of Picasso” dal sottotitolo “If I told him” (Come lo dico, 1934). In questo testo, come in molti altri, la Stein usa a piene mani la tecnica della permutazione ed è forse la prima ad inaugurarla in epoca moderna (non in quella antica: abbiamo un notevole esempio con Optaziano Porfirio in epoca di Costantino). Combinando la permutazione coi giochi di parole e con un uso sapiente delle iterazioni, erette a metodo del comporre, la Stein giunge a risultati inediti di precisa forma aerodinamica: è la lettura d’un ritratto cubista foggiata con voce metallicamente anglosassone a modellare un testo che è pura intonazione ritmica, creando una sorta di ipnotica fascinazione.

L’inglese Brion Gysin, inventore della “Dream-Machine”, apparecchio atto a variare luci agenti sulla retina ad occhi chiusi e creatore con Burroughs del cut-up moderno, ha mutuato dalla Stein la tecnica permutativa. Il suo capolavoro resta il poema sonoro “I am”, composto solo dalla frase “I am that I am”. Permutando le parole di tale frase e progressivamente accelerando col mezzo elettronico la dizione, Gysin costruisce un testo di esemplare intensità: la crescente velocità del dettato e la moltiplicazione delle permutazioni configurano la metafora sonora della disseminazione dell’essere nell’universo. (Fig. vedi glossario)

Più vicino alla dizione della Stein è l’americano Dick Higgins (1938-1998) nei “Bodies Electric Arches”, tornando a queli effetti di incantamento ipnotico che la permutazione e l’iterazione danno.

Analogamente si comporta Demetrio Stratos (1945-1979) nella lettura ritmica dei testi in greco di “Metrodora”, una medichessa del periodo bizantino.

Dell’opera di Gian Paolo Roffi (1943) Eugenio Miccini scrive: “Roffi lavora con metodo allo stesso tempo sottrattivo e additivo. Sceglie testi minimali che ripete sino ai limiti della saturazione uditiva, oltre la quale si assiste ad una sottrazione del senso e ad una esaltazione della natura sonora del testo. Ma il perdurare dell’iterazione produce il recupero del significato e al contempo della sua sonorità. L’esito è la fusione degli elementi fonici e di quelli semantici”. (E. Miccini in “Poesia visiva e dintorni”, Firenze 1995) (Fig. 33)

Per Mauro Dal Fior, interprete vocale delle avanguardie storiche, del futurismo soprattutto, la poesia è azione da ascoltare e vedere, e sono giochi verbali in complicità col pubblico. In “Ritagli” (1990) su ritagli di giornali sono proiettate figure nude e la lettura è condotta con toni improvvisati in quel momento. In “Eventi” (1992) una decina di performers leggono frammenti di testi pubblicati sulla stampa italiana in occasione della morte del musicista John Cage. In altra azione un pianoforte verticale viene segato in due: “Concerto per pianoforte se … parato”.

Il musicista e performer americano Meredith Monk punta sull’articolazione fonematica, sul simultaneismo e sull’iterazione insistita per comporre testi che paiono recare la nostalgia di antichi canti medievali.

Tornando alla modulazione dei toni del parlato, in una serie di prove del periodo 1970-90, le “Intonazioni”, Lora Totino ha cercato di indagare lo stretto legame che queste hanno con il senso del discorso. In un pezzo fono-gestuale del 1970, l’esperimento viene portato al limite estremo, valendosi unicamente della vocale ‘a’ intonata in svariate tonalità: ira, dubbio, noia, patetismo, lamento, violenza, ironia, scherzo, il tutto sostenuto dalla gestualità del corpo e dalle espressioni del volto. Si è voluto dimostrare che anche in assenza d’un discorso sensato, la pura intonazione del parlato può agevolmente tradursi in una serie di precisi semantemi. Se da un lato la parola è coniugata e il verbo declinato secondo regole grammaticali, la dizione della voce è coniugata da intuitive regole di inflessione. (Fig. 34)

L’italiano Pietro Porta (1949) dal 1982 ha composto una serie di poemi sonori frutto d’una ricerca intraverbale su parola e rumore. In “Espansione 2” (1982) l’iterazione ossessiva a velocità crescente della parola ‘pomodoro’ finisce per disgregarne il significato in puro rumore. Altri lavori si presentano come quadri sonori caratterizzanti aspetti del comportamento sociale come ne “Il giorno che morì il nonno” (1986) ove una veglia funebre presso una casa della campagna piemontese, si trasforma a poco a poco da un tessuto di sospiri ed esclamazioni di rassegnazione in conversazioni sottovoce da cui spunta qua e là qualche risatina.

Su litanie di tipo infantile il due spagnolo Rafael Metlikover (1964) e Xavier Theros (1963) “Accidents Polipoetics”, attivo dal 1995, propone comiche nenie come “Un triste poema” o il pezzo “Yo soy bueno” che termina con la battuta “Yo soy tonto”.

Carla Bertola (1935) e Alberto Vitacchio (1942), poeti lineari, visuali e sonori, praticano l’intermedialità. Dirigono la rivista “Offerta Speciale” e la collana di poesia sonora in casse “Paté de voix”. Nelle loro performances, sia in coppia che singolarmente, generano labirinti sonori a ritmi lenti che s’aprono in polifonie verbali e umoristiche evolventesi senza posa: la forma sonora tende verso un genere di poema sinfonico sui generis. In altri momenti Carla Bertola usa trascorrere per assonanze fonosemantiche in serie di frasi creando curiosi bisticci del senso. (Fig. 35-36)

L’americano Larry Wendt (1946), usando i più moderni mezzi elettronici, costruisce i “Metropolitan Fractalizations”: ogni genere di suono-rumore serve per evidenziare una serie di fenomeni osservati nel loro disporsi in forme frattali: moti browniani, rumori meccanici, grida di animali, bioritmi: un modo di rendere l’evento tramite una sua completa ricostruzione sonora.

Qui vorremmo aprire una parentesi riguardante quegli autori di poesia sonora che chiameremo ‘salmodianti’, il cui declamato in genere poggia su un certo tipo di cantilena, come ad esempio il canadese Bill Bisset che rievoca modulazioni di canti rituali di tribù indiane d’America, oppure l’americano Jerome Rothemberg (1931), lui pure interessato a creare una specie di cortocircuito tra poesia sonora e stilemi di litanie precolombiane e anche con le modulazioni dei salmi biblici cui si ispira in un contesto di neo-ritualismo.

Anche gli inglesi Bob Cobbing (1920-2000) e Paula Claire (1939) potrebbero rientrare in questa categoria. Una specie di litania è il pezzo “Whississippi” di Cobbingm, un flatus vocis come soffio vitale del grande fiume (1979). Negli anni ’60 Cobbing battè molti typewritings (dattilopoemi) che poi gli suggerirono l’idea per successivi poemi sonori, ad esempio da una doppia battitura sovrapposta d’un testo passare ad un effetto eco sonoro. (Fig. 37)

Paula Claire spesso si appoggia su melodie folk inglesi, ma altre volte modella la voce tramite l’uso di microprocessori che le permettono pure di spazializzare il suono. La sua inventiva vocale quasi non conosce limiti, tanto da riuscire a leggere foglie, fili di paglia, voli di uccelli.

Pure lo stile aggressivo della francese Nathalie Quintane (1964) è sostenuto da vari tipi di cantilene, così come per l’argentino Doctorovich (1961) e per il russo Aleksandr Gornon (1946); quest’ultimo si richiama alla salmodia dei canti ortodossi.

In Italia la “polipoesia” di Enzo Minarelli (1951), fusione multimediale di diverse componenti (danza, mimica, umoristica, gestualità), spesso si appoggia a toni cantilenanti, come di regola su melodie folk si sostiene la poesia ironica di Luisa Sax (1956). (Fig. 38)

Nella poesia sonora di Agostino Contò (1953) intonazione e melodia del parlato hanno un ruolo essenziale. Egli usa antiche lingue e dialetti come il provenzale o il volgare padano e veneto, le cui intonazioni sono particolari e nella sovrapposizione di voce su voce, di tono su tono, di modulazione su modulazione egli evita effetti di tipo elettronico per non alterare il carattere naturale della dizione stessa e l’unicità timbrica della voce nella quale vibra il ricordo di antiche canzoni popolari.

 

Il ritmo

 

In un panorama internazionale (Fig. 39) di poesia sonora troviamo alcuni autori per i quali il senso del ritmo prevale sugli altri parametri. Tale è il caso di Lily Greenham,. Américo Rodrigues (1961), Beth Anderson (1950), Bliem Kern (1943), Nobuo Kubota (1932), Paul Dutton (1943), ecc…

Ma già il pittore e archietto olandese Theo van Doesburg (1883-1931) aveva composto nel 1916 una serie di poemi di carattere prevalentemente ritmico, per certi aspetti analoghi a certe soluzioni futuriste, ad esempio del Cangiullo di “Addiooo” (su Lacerba, 1913) (Fig. 40). Sono testi raccolti nella serie “Soldaten” del 1916, in forme tipografiche splendidamente ortofoniche, altro richiamo futurista: ad esempio il suono d’un reparto di truppe in marcia in “Voorbjtrekkende Troep” o la trascrizione verbofonica del ritmo del tamburo in “De Trom”. Un eccellente esempio ritmico è quello offerto dal lettrista Jules Lemaître in “Lettre Rock” ove più voci maschili e femminili ci danno un contrappunto impeccabile al ritmo del roch & roll.

La viennese Lyli Greenham è una eccezionale dicitrice di testi d’avanguardia tedeschi e del pittore Peter Greenham. Una voce la sua, dura, aggressiva se necessario, puntuale e precisa nello sgranare le sillabe in una sorta di danza verbale che chiama “Lingual Music”.

Altrettanto netta è la dizione del portoghese Américo Rodrigues nel disco “O despertar do Funâmbulo”, davvero funambolica nel mitragliare sillabe in un flusso orale a tavoletta.

Particolari dinamiche allitterative troviamo nei poemi sonori della compositrice americana Beth Anderson, abbinate ad un notevole senso umoristico come in “I wish I was single again”. Talvolta la parte sonora si dilata in spartito visuale in “Crackers and checkers”, il cui testo è composto di versi che si fanno sempre più brevi sino ridursi ad una sola lettera, poi il silenzio.

Fortemente ritmica è pure la poesia sonora dell’americano Bliem Kern, fondatore a New York del “Sound Poetry Workshop” (1971). Kern possiede un buon virtuosismo vocale in testi come “Ke kee kee alahhoo” (in “Meditations Meditations”, 1973).

La “Poesia Fonematica” di Nobuo Kubota, canadese d’origine giapponese, è una scatenata danza di fonemi in complesse variazioni. Spettacolari le sue improvvisazioni, come pure quelle di Paul Dutton, già membro del quartetto canadese dei “Four Horsemen”. Entrambi questi autori hanno proseguito nello stile ultralettrista del francese François Dufrêne (“Chrirythmes”), la cui materia è composta da fonemi, grida, suoni creati con labbra, lingua, ugola, gola.

Demetrio Stratos, nel pezzo “O Tzitziras o Mitziras” (1978) ci ha offerto da par suo un vertiginoso balletto vocale riducendo la lettura d’un testo che di norma avrebbe dovuto durare il quadruplo, a meno di un minuto.

Pure la tedesca Isabella Beumer (1951), avvalendosi d’una fenomenale tecnica di dizione, non ha remore nello slanciarsi in vorticose stravaganze fonematiche.

Il duo tedesco “Omophon”, attivo dal 2001 col nome pure di “Fonetic decoration text Factory”, combina elementi di letteratura, teatro e musica con una tecnica impeccabile e un ritmo scattante.

 

Il respiro, la voce, il corpo

 

“La voce… non si lascia considerare isolata ed esprime la più vera corposità del linguaggio… la voce è la necessità di lasciar parlare il corpo” (Matteo D’Ambrosio, “La battaglia contro la parola” su “Tam-Tam n° 26, 1981). “Non basta parlare di una performance orale-sonora; l’emissione dei suoni non può non essere accompagnata da una gesticolazione del corpo, da una mimica facciale, da un comportamento globale” (Renato Barilli, “Viaggio al termine della parola”). “D’altronde, aggiunge Fontana, è nelle tesi di Paul Zumthor che la voce si avvalga proficuamente della presenza scenica, e in quelle di Claude Lévi-Strauss che la creatività orale sia comunque totalizzante”. Sempre  Zumthor chiarisce che “nel momento in cui, durante la performance, il testo composto per iscritto diventa voce, una mutazione globale lo investe e, per tutto il tempo in cui prosegue l’audizione e in cui questa presenza dura, ne modifica la natura. Aldilà degli oggetti e dei sensi a cui fa riferimento, il discorso vocale rinvia all’innominabile; la parola non è la semplice esecutrice della lingua che non realizza mai pienamente, che infrange con tutta la sua corporeità per il nostro imprevedibile piacere. È così che la voce interviene nel e sul testo, come dentro e su una materia semiformalizzata con cui plasmare un oggetto mobile, ma finito”. (P. Zumthor, “Poesia dello spazio” in “La taverna di Auerbach”, n° 9-10, 1990)

Ma prima della voce c’è il soffio, il respiro. Nella Bibbia il soffio di Yahweh dà vita all’universo e il respiro fa vibrare la voce e la voce la parola con la quale si nomina il mondo, possedendolo. Nella poetica di Pierre (1927) e Ilse Garnier (1928) il respiro è il fondamento della poesia, e specialmente di quella orale perché è l’elemento di comunione tra il corporeo e l’incorporeo (“Souffle-Manifeste”, 1963): io respiro, dunque il mondo è”. Nasce la “Sonie” arte del suono-parola, che superando le barriere dei linguaggi, vuol riscoprire l’energia del linguaggio stesso: “a partire dal respiro può essere reinventata una lingua con nuova sintassi e nuove strutture compositive”. La sonie si fa poème-action ove il respiro plasma nuove forme espressive.

Estremizzando questa tendenza, incontriamo gli “Audiopoèmes” di Henri Chopin, ove la voce si fa segnale del gesto interiore e gli impasti sonori si pongono come significative presenze aldilà di ogni convenzione linguistica. Chopin è contro la parola e pone il suo lavoro oltre la lingua, in quella zona in cui i suoni sono l’espressione dei nostri organi, “le basi per le dismisure sonore misurate, ma non codificabili, volendo evitare la notazione” (H. Chopin, “La voce” in “La taverna di Auerbach” n° 9/10, 1990). “L’audiopoema di Chopin sceglie di articolarsi sulla genesi corporea e corporale del suono… Chopin capta dal suo apparato fonatorio e dal suo intero corpo la materia sonora con la quale plasmerà la sua poesia… Chopin è un moltiplicatore di suoni corporei, un funambolo del magnetofono multipista, un mago dell’amplificazione. Movendo dalle ‘particulae’ pressoché inavvertibili che pervadono i sentieri del nostro organismo, egli riesce a creare aggressivi concerti di poesia materica” (G. Fontana, op. cit. pag. 132).

Su di un altro versante, nelle performances di Adriano Spatola (1941-1988) “il corpo diventava il centro di un campo di forze magnetiche collegate al mondo; ogni battito, ogni pulsazione era un modo di permettere la comunicazione, di favorire collegamenti iper-estetici… il corpo diventava un tam-tam che dissipava energie… ma il corpo non emanava semplicemente, era anche recettore degli stimoli provenienti dal pubblico, che si esprimeva con piccoli segni, gesti di reazione, tratti espressivi, mormorii, silenzi, respiri, colpi di tosse, applausi, fischi (Fig. 41). Il corpo, la sua presenza totale era uno degli elementi fondamentali della “poésie directe” (J. Blaine) di Spatola. Egli puntava sulla presenza scenica, sulla sua maschera, sul volume del suo corpo, sui movimenti lenti e ponderati e lavorava molto sugli elementi sovrasegmentali, toni, timbri, volumi, respirazione. Al pubblico offriva il poema di sé, come in “Jonisation” nel quale provocava pulsazioni sonore battendo il microfono sul suo corpo” (G. Fontana, op. cit.).

Ed ecco un’altra proposta, la “Poesia Ginnica” (dal 1970) di Arrigo Lora Totino, costituita da una serie di fulminei gags mimico-verbali ove parole e gesti si integrano compiutamente, la battuta è al contempo verbale e atto corporeo, inscindibilmente. Ad esempio, nella poesia ginnica “Il politico” l’attore, ritto in piedi di fronte al pubblico, deve mimare le mosse d’un provetto sciatore mentre più volte ripete “slalom, slogan” in tono di mellifluo imbonitore; poi l’azione si fa sempre più rapida e il gesto sempre più disinvolto, ma di botto una caduta blocca l’evento, seguita da un lamentoso “slogatura!”. Oppure in “Solidarietà” l’attore sull’attenti recita lentamente “one, two, three, four” allargando le breccia sino a portarle dietro la schiena; al comando di “fire”, anziché “five”, egli crolla come fucilato al suolo. (Fig. vedi glossario)

Pure Katalin Ladik, nelle sue azioni che sono favole verbomimate, usa il corpo in mille stupefacenti travestimenti espressivi (Fig. 42). Nella poesia del catalano Bartolomè Ferrando “il corpo si fa scrittura, la scrittura immagine… il non detto emerge dai ritagli del discorso e gli oggetti si caricano d’un peso semantico insospettabile. Ferrando tratta con maestria le parole come cose e le cose come parole, le parole come voci e le voci come parole, le parole come gesto e il gesto come parole” (G. Fontana, op. cit. pag. 72).

Nelle performances di Nicola Frangione “il carattere distintivo è l’attenzione al corpo come elemento espressivo, un corpo che ha un rapporto di tipo rituale con lo spazio e con il silenzio che lo circonda. Gli oggetti sottolineano le valenze corporee con connotazioni simboliche, mentre la parola è compressa nel corpo e agisce al suo interno, morendo sulle sue labbra. La vocalità si pone nella stessa stregua degli altri elementi espressivi, ad esempio di testo e musica in chiave sinergica e non meramente in sovrapposizione, nel senso di una “poesia del suono” in cui il suono è un eco anticipatrice della parola quando questa sta nascendo” (G. Fontana, op. cit.).

Tomaso Binga si realizza compiutamente nella scrittura materiale, scrittura che è pure gesto ove è lo stesso corpo a farsi scrittura. La sua vocalità recupera modalità espressive dell’oralità popolare (filastrocche, nenie, intonazioni dei venditori ambulanti, dei cantastorie, della centraliniste radio-taxi). Le sue performance sono “sceneggiate poetiche” atte a stabilire un rapporto stretto col pubblico. (Fig. 43)

Per Massimo Mori è l’uso del corpo a costituire l’asse della espressione poetica, un modo d’uso  che si riallaccia a particolari forme della gestualità ascetica orientale che egli fa interagire con situazioni psicologiche attuali. Tipica, ad esempio, è l’azione “Combattimento con l’ombra” oppure il poema-video “Per in dio, mantra di invocazione e mandala mobile” ove le studiate movenze del corpo secondo geometrie contemplative, si contrappongono a forme grafiche freneticamente dinamiche, mimando un dualismo tra pura interiorità e delirante dissipazione del gesto quotidiano.

 

I funamboli della voce

 

Già nel periodo fra le due guerre mondiali i dada Raoul Hausmann e Kurt Schwitters avevano composto complesse e articolate glossolalie alfabetiche: di Schwitters basti citare la “Ur-Sonate”, sonata ancestrale, composta a tavolino nella classica forma sonata, prendendo come soggetto tematico un breve poema fonetico di Hausmann, il quale invece preferiva improvvisare contando sulle sua inesauribili risorse di invenzione verbale.

Una voce inimitabile è stata poi quella di Altagor e sono sei ore di “Discours Absolu” interamente composto da neologismi astratti.

Nel secondo dopoguerra François Dufrêne, uscito dal lettrismo, inventa i “Crirythmes”, improvvisazioni la cui materia sonora è composta da tutta una gomma di fonazioni prodotte dalla bocca e dalla gola (Fig. 44). Con diabolica abilità le labbra di questo Paganini ultralettrista si torcevano quasi fossero di gomma, producendo balletti linguali e gutturali che hanno affascinato tutta una generazione di autori sonori, dai canadesi Paul Dutton e Nobuo Kubota, al portoghese Américo Rodrigues, all’olandese Jaap Blonk (1953) e altri ancora. Blonk poi ci mette di suo una possente tensione fisico-psicologica sì da trasformare il volto in mimiche espressive quasi affini alle maschere della tragedia classica. Non possiamo poi scordare la tedesca Isabelle Beumer, maestra impareggiabile dell’articolazione fonematica.

E dunque da Hausmann in poi vale quanto scrive Giovanni Pozzi in “Poesia per gioco” che è possibile una strumentazione sonora della lingua del tutto indipendente dall’organizzazione dei significati. Se si possiede la capacità di variare timbri, toni, pause, accelerazioni e tutti gli altri parametri vocali si giunge a risultati da funambolo della voce. Questa è la conseguenza, al momento estrema, cui è giunto il processo di sovversione e ricostruzione del linguaggio, d’un linguaggio solo ed esclusivamente parlato, un processo dietro al quale ci stanno le prove dei simultaneisti, dei futuristi, dei dada, degli zaum russi, della rivoluzione lessicale di Joyce e di Harno Holz.

E qui è d’obbligo ricordare la materialità del linguaggio di Emilio Villa, sommo poeta lineare della seconda metà del 1900, una materialità esaltata dal plurilinguismo, che apre decisamente alla phoné in gran parte della sua produzione poetica. Si veda, in particolare, “Diciassette variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica” (origine, Roma 1955). Dunque, non solo nell’area della poesia sonora, ma pure nella poesia lineare si danno tali eccezionali esempi di trasgressione e superamento del linguaggio, che in Villa giunge spesso e volutamente all’oscuramento semantico, da Sibilla in preda alle convulsioni del profetizzare. (Fig. 45)

Ma infine tali esteriorizzazioni funamboliche della voce vogliono plasmare ed istituire una neo-lingua che sarà pura poesia-musica vocale; aldilà della melodia artificiale del canto, aldilà della parola, aldilà d’una distinzione tra poesia e musica, tendente  ad una espressione unicamente glossolalica ove il significante è sganciato dal senso ed è libero di esporre ciò che il significante è di per sé, probabilmente qualcosa di molto prossimo al “grammelot” della Commedia dell’Arte, così ben ritrovato da Dario Fo, che così ne parla nel “Manuale minimo dell’attore” (Torino, 1987): “La prima forma del grammelot la eseguono i bambini quando fingono di fare discorsi chiarissimi con farfugliamenti straordinari… Ho assistito al dialogo tra un bambino napoletano e un bambino inglese… non usavano la propria lingua, ma un’altra inventata… il napoletano fingeva di parlare in inglese e l’altro in italiano meridionalizzato. Si intendevano benissimo. Attraverso gesti, cadenze e farfugliamenti variati, avevano costruito il loro codice”. Così i poeti funamboli stanno procedendo, bambini un po’ cresciuti, un po’più tecnicamente smaliziati, un po’ più oltre, verso un dove tutto da esplorare.

È qui d’obbligo parlare di Demetrio Stratos (1945-1979) le cui ricerche sulla voce si situano al confine tra poesia e musica e sono state portate ad un grado tale di tensione da far parlare di ‘suicidio vocale’, una voce libera da qualsiasi vincolo culturale, oltre ogni posizione tra Oriente e Occidente, tra avanguardia e musica etnica (Fig. 46). Ed infatti ad esempio nei “Mirologhi” egli recuperava vocalmente le improvvisazioni dei clarinettisti dell’Epiro, mentre “Metrodora” è diafonia a due voci che recitano a ritmi differenti frammenti in greco bizantino d’un codice medico ginecologico di Metrodora, celebre medico donna attiva a Bisanzio nel VI secolo. Nel 1974 interpreta l’opera “Sixty-two mesostics Re Merce Cunningham” di John Cage. Ecco alcuni esempi delle sue ricerche sulla voce: portare le oscillazioni delle corde vocali alla massima tensione sì da produrre un sovrapporsi di armonici; indurre le vocali a sfociare in consonanti esplosive; nelle “Diplofonie” e “Triplofonie” provocare un secondo e un terzo suono in simultanea col suono di base; registrare un testo al contrario in modo tale che ascoltandolo in recto, non si avverta altro che una lettura normale; praticare occlusioni e irrigidimenti della laringe per ottenere quelle che Stratos chiamava “scorie di armonici”; impiego dello jodel; articolare il parlato a velocità inaudite con in “O Tzitziras o Mitziras”, eccetera. Una voce la sua “erotica ed eretica” (Fontana) che lasciava il pubblico attonito per l’originalità della prova.

Due donne paiono aver ripreso l’eredità di Stratos e sono, forse non a caso, provenienti dall’oriente, l’ungherese Katalin Ladik e la mongola Sainkho Namtchylak. La Ladik fu una scoperta del festival di poesia sonora di Amsterdam 1977: una voce molto bella che è una orchestra verbofonica svariante su più registri tonali e timbrici. Iniziò interpretando poemi visuali di poeti contemporanei (“Fonica Interpretacija Poezije”), ma presto proseguì in proprio ricreando favole come “Cappuccetto Rosso” in cui era al contempo la bimba, la nonna e il lupo cattivo, quest’ultimo deformando il volto col semplice espediente di premerlo contro un vetro trasparente. La voce giocava sulle accumulazioni particolari della lingua agglutinante ungherese in sorprendenti modulazioni e deformazioni acute, gravi e altresì con l’uso esperto della tecnica del ventriloquo, capace di separare l’atto del respirare da quello del parlare si da poterli usare simultaneamente.

Analogamente la cantante e performer mongola Namtchylak, che pure lei profitta del ricco patrimonio vocale d’una lingua agglutinante uralo-altaica.

Un’altra donna – qui i maschi devono star attenti a non farsi superare dalla capacità tutta femminile di estrarre visceralmente espressioni al limite isteriche, talvolta misteriche: non erano femmine le Sibille? – la spagnola Fatima Miranda ci offre altre possibilità vocali ove interviene una cultura squisitamente musicale le cui ascendenze risalvono non solo al periodo islamico della Spagna, ma al momento della primitiva polifonia nata dal cantus firmus gregoriano e mi riferisco alla scuola di Notre Dame di Leoninus e Perotinus (Fig. 47). Infatti la voce-canto di Fatima Miranda è intessuta da ritmi polifonici con altre voci e proprio in quel punto nasce l’ornamento e la fioritura sia ritmica che di consonanze e dissonanze in un flusso dinamico generato dalla materia sonora, perché è l’opposizione di consonanze-dissonanze a costituire il dinamismo dell’evento, come già notava Boezio nel VI secolo: “La Bellezza si manifesta come equilibrio armonico di stasi e moto, unità e varietà, grave-acuto, identico-dissimile, intero-multiplo”. Sia nel “Flatus Vocis Trio” che in altri complessi vocali le voce di Fatima Miranda si fa “Musica peritia modulationis” (Sant’Isidoro).

In forma monodica tali qualità ci sembrano pertinenti per la vocalità poetica di Giovanni Fontana che dal 1970 in poi (“Radiodramma” è del 1977) ha elaborato una complessa orchestrazione della propria voce, facendone un docilissimo, estremamente malleabile strumento sonoro. Questo Stradivario di Alatri rimane saldamente ancorato alla parola che lavora fondendola, amalgamandola, sublimandola, sciogliendola, solidificandola e insomma riproponendo in veste attualissima quella ‘ossessione lirica della materia’, specie nella resa della funzione sensoriale delle papille gustative, già auspicata da Marinetti. E davvero la sua voce attinge alle possibilità di “animalizzare, vegetalizzare, mineralizzare, elettrizzare, liquefare lo stile”. (Fig. 48)

Pure ancorata alla parola è la ricerca della francese Michèle Métail (1950), “un tentativo, lei stessa dice, di gestire il linguaggio scomponendolo nelle sue parti: sostantivi, verbi, aggettivi, ecc…, e sono i “Compléments de noms”. Si tratta della lettura d’una accumulazione senza fine di frasi che crescono per aggiunte (complementi) successive di elementi lessicali. Ascoltandola pronunciare con dizione imperturbabile ma esatta, questi complementi, si assiste al fenomeno d’una voce che lentamente cresce di volume e quindi s’affievolisce per riprendersi e così via in una sorta di flusso e riflusso d’una marea di onde fraseggianti, senz’altro un tour de force del parlato.

Il musicista e poeta sonoro Giuliano Zosi (1940), nella serie dei “Phonos” agisce sul momento formante del significante che costruisce per iterazioni ritmiche del fonema, quando nasce dall’informe balbettìo. Il “Phonos 1” (1980) è una specie di mantra sonoro, dalla simulazione dell’alito cosmico alla formazione delle parole sacre indù; in “Phonos 2” il filo conduttore è dettato dal patrimonio popolare delle filastrocche, degli scioglilingua in un rozzo linguaggio primitivo pronunciato a ritmo forsennato; il “Phonos 3” (1985) è una sorta di viaggio nel medioevo tra formule alchemiche, invettive di inquisitori e burle di clerici vagantes; il “Phonos 4” (1987) è per quattro campane e un esecutore che si finge giullare; il “Phonos 5” (1990) è costituito da un simbolico viaggio nel subcosciente, articolato in sezioni dal titolo “Frammento edipico”, “La risata nefasta”, “Scherzo dello sbadiglio”, “Urpoème”, “Poema fallico”, “Poema occulto”, “Poema microbico” dove la voce scorre dal grido primordiale all’espressione di complessi edipici, al sogno, un viaggio nell’inconscio secondo coordinate psicanalitiche. La voce di Zosi riesce a produrre doppi suoni ed è particolarmente agile nei crescendo (Fig. 49). Tra l’altro dal 1970 in poi Zosi si è specializzato nella esecuzione vocale dell’intero spartito della “Ursonate” di Scwitters, che egli esegue come un esperto pianista eseguirebbe una sonata classica, vale a dire seguendo attentamente quanto indicato dall’autore. La sua esecuzione è dunque alquanto differente da quella storica dello stesso Schwitters, il quale dadaisticamente trascurava spesso la fedeltà al testo, per slanciarsi nell’umorismo fonetico tipico della poesia sonora dada.

 

Oralità e tecnologia

 

All’inizio di questo nostro discorso s’era accennato ad una oralità tecnologica ove predominano dispositivi plurilinguistici di arti e generi non più separabili per la determinazione dei significati. E certo se nei primi anni del novecento i Futuristi avessero avuto a disposizione i mezzi elettronici attuali, sarebbero stati i primi ad usarli, si pensi solo all’idea di Balla e Depero di “Ricostruzione futurista dell’universo” che nel loro manifesto veniva esemplificata con opere di cartone, gesso e legno.

Ma c’è di più: nel manifesto “La Radia” (1933) di Marinetti e Masnata si ipotizzavano drammi sonori da lanciare nell’etere e, tra l’altro, descrizioni di concise azioni sonore come la “Costruzione di una casa fatta coi suoni: parete destra con rumore di traffico stradale, parete sinistra con rumore d’un reparto di soldati in marcia, soffitto fatto di cinguettii d’uccelli e folate di vento, pavimento composto dallo sciacquio del liquido che scorre nelle tubazioni.

S’era poi fatto il caso di Henri Chopin per il quale i mezzi elettronici sono imprescindibili. Così pure per il fiammingo Paul De Vree (1909-1982), già fondatore della rivista d’avanguardia “De Tafel Ronde” (1953) e tra i primi ad interessarsi di poesia sonora subito dopo la seconda guerra mondiale (Fig. 50). De Vree è particolarmente abile nel giocare sulle associazioni fonico-semantiche e allitterative intensificate con attente riverberazioni, avvalendosi delle possibilità offerte dallo studio di musica elettronica di Utrecht e dell’aiuto del compositore Jan Bruyndonckx. Il risultato è di una stupefacente magia timbrica.

L’americano Ernest Robson (1902), autore di rigorosi modelli teorici sui sistemi di scrittura degli spartiti fonetici, insieme con Larry Wendt traspone su nastro magnetico tali ricerche particolarmente efficaci nella resa della plasticità dei fonemi: in “Oh no” (1976) è l’uso dell’iterazione a creare una cadenza nella quale i fonemi sono modellati per successive variazioni elettroniche.

Per l’americano Robert Ashley (1930) essenziale è l’uso dei mezzi elettronici. Ad esempio il testo “In Sara, Mencken, Christ and Beethoven There were Men and Women”, dello scrittore sperimentale J. Barton Wolgamot, viene da prima analizzato elettronicamente e successivamente variato in base a sette differenti forme sonore (scatto negli attacchi, frequenze fondamentali,  cinque differenti armonici e così via).

Il canadese Pierre André Arcand (1942) è l’inventore della “Réenregistreuse” macchina sonora che crea, partendo da segnali in successione, un continuum sonoro in progressione e trasformazione generato e controllato in diretta. Si creano sul nastro magnetico sovrapposizioni in sempre successive metamorfosi sonore.

Ma la parola parlata, sottoposta a dei semplici esperimenti che di elettronico hanno ben poco, svela impreviste proprietà. Ad esempio, il compositore americano Alvin Lucier ha provato a registrare di nuovo la registrazione d’una frase come “I am sitting in the room” e poi registrare questa registrazione una seconda e terza volta e molte altre ancora. Si assiste alla graduale modificazione sonora della frase, dovuta all’accumulo delle riverberazioni ambientali, sino a che la frase stessa scompare come senso, sostituita da una specie di musica di echi: così la parola torna alla sua origine di puro evento sonoro asemantico.

Nel 1953 il poeta concreto brasiliano Augusto De Campos (1931) realizza “Poetamenos”, un poema-spartito ove l’autore ha segnato i vari timbri fonici attribuendo colori diversi alle parole, alle sillabe o alle lettere. Il testo verrà poi vocalizzato due anni dopo a Saõ Paulo da un gruppo di musicisti d’avanguardia che ne seguirono le indicazioni cromatiche nella loro trasposizione sonora.

Due giovani autori francesi costruiscono i loro testi avvalendosi di scansioni e di filtri elettronici, Anne-James Chaton con le accumulazioni degli “événements” (1999) ed Hélios Sabaté Beriain con la “Poésie électronique” (2001).

Giovanni Fontana in “La voce in movimento” (op. cit.) sostiene che “la tecnologia elettronica… al momento, sembra costituire l’unico settore abilitato ad aprire spazi acustici insospettati” e cita Mario Costa che al convegno “Altra Musica, Altri Canti: ricerca e sperimentazione nella poetica di fine millennio” (Longiano, 1996) affermava che “il destino dell’arte è indissolubilmente legato a quello della tecnica… che la storia dell’arte è sostanzialmente storia dei media, dei lori conflitti, delle loro interferenze e ibridazioni… che la visione dell’artista è largamente indotta dallo stato della materia, delle tecniche e delle procedure… che rompono con ogni categoria tradizionale del pensiero sull’arte… che con esse il lavoro si fa collettivo, interattivo, processuale e il soggetto si trasforma in ipersoggetto… segnando la fine dello stile che si fa non necessario e irreperibile… che le tecnologie lavorano in maniera decisiva a quella disumanizzazione dell’opera la cui esigenza è esplicitamente avvertita la prima volta da Marcel Duchamp e che costituisce ora la condizione in base alla quale soltanto può essere pensato quell’eventuale ritorno all’estetico”.

Lasciamo al signor Mario Costa la responsabilità di queste affermazioni, anche per quanto riguarda il giudizio sull’opera di Duchamp. Il futuro è pur sempre sulle ginocchia degli dei, sperando che siano quelle di Apollo e Dioniso e un po’ meno quelle di Vulcano.

 

 


 
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